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Deborah Kerr, da qui all’eternità

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Ritratto di signora

Se, tra le anse del mélo, Elisabeth Taylor ha incarnato la donna che, per generosità sentimentale o avarizia della sorte, sbanda e precipita lungo il declivio della perdizione, Deborah Kerr, di cui il 30 settembre ricorre il centenario della nascita, ha rappresentato un modello di compostezza e rispettabilità sottoposto, tuttavia, alle ingiurie di un destino malevolo. Saggia, lungimirante e volitiva come l’omonima profetessa veterotestamentaria. Dalla sua, un aspetto morganato, sobrio, sostanzialmente privo di sex appeal, una voce argentina, una recitazione introspettiva, incline a una drammaticità parsimoniosa e mai declamatoria, provvista di una persuasiva grammatica di sguardi in tralice, distacchi assorti e movimenti minimali del volto capaci di esprimere stati d’animo e scarti emotivi anche nell’inconcusso silenzio di una mancata esternazione verbale. Attitudini che, per giunta, non compromisero mai umorismo e luminosità.
Scozzese di natali, inglese di formazione commista di danza e prosa, Deborah Jane Trimmer, così all’ufficio anagrafe, dimostra ben presto di avere la giusta stoffa, quando, ancor giovane, fronteggia con esemplare misura le provocazioni estetiche e i fervori tematici di due peccatori per eccesso come Michael Powell ed Emeric Pressburger. Duello a Berlino (The Life and Death of Colonel Blimp, 1943) la scompone in una loquace femminista e pacifista della Belle Époque, in una dolce infermiera nel pandemonio del primo conflitto mondiale, in un’atletica autista durante il secondo, le tre facce di un’unica ossessione maschile. Narciso nero (Black Narcissus, 1947) la veste da madre superiora di un convento sull’Himalaya, divisa tra il ricordo doloroso di un amore finito e l’impotenza davanti all’animalità che l’ambiente risveglia nelle consorelle. Un dottorato prestigioso, il periodo britannico, al quale appartiene anche la bella prova in uniforme marinaresca resa in Intermezzo matrimoniale (Perfect Strangers, 1945), rom com eteroclita del poliedrico Alexander Korda.
Insomma, vanta già un curriculum ragguardevole e un’ampia notorietà, la ragazza, quando sbarca a Hollywood, ove diverrà una delle più fulgide stelle del firmamento mediatico (“the surname rhymes with star”, Louis B. Mayer dixit) e una delle contrattiste più pagate, assegnataria di un Golden Globe e, dopo sei candidature infruttuose, di un Oscar alla carriera consegnatole, per mano di Glenn Close, nel ‘94.
Se, nel ‘53, con l’abbandono tra le braccia possenti di Burt Lancaster su una spiaggia delle Hawaii, mentre i venti di guerra sospingono i giapponesi su Pearl Harbor, l’attrice strappa il suo scampolo di leggenda (superfluo puntualizzare che il film in questione è From Here to Eternity di Fred Zinnemann, l’intramontabile Da qui all’eternità), una pellicola alla volta, e non solo in opere lacrimevoli, ella sigla un patto fiduciario con il pubblico forgiando il suo personaggio di donna elegante e, in definitiva, perbene, non impermeabile, tuttavia, alle passioni e non ignara di sconfitte. Per George Cukor, è una moglie onesta vessata dall’esecrando marito Spencer Tracy in Edoardo, mio figlio (Edward, My Son, 1949). Per Joseph L. Mankiewicz, è Porzia nel magnifico Giulio Cesare (Julius Caesar, 1953). Per Otto Preminger, è, in Bonjour tristesse (1958), un fortilizio di integrità e alterigia che, tuttavia, ha la sventura di insinuarsi nella relazione in odore d’incesto tra un’adolescente capricciosa (Jean Seberg) e il suo piacente padre (David Niven). Per Walter Lang, nel musical Il re e io (The King and I, 1958), ha la schiena dritta e le maniere garbate della governante che, irriducibile, blandirà l’efferato monarca del Siam, un perentorio Yul Brynner che impose l’inappuntabile scozzese alla produzione preferendola a Maureen O’Hara. Per Henry King, invece, Kerr interpreta Sheilah Graham in Adorabile infedele (Beloved Infidel, 1959), dedicato all’ultimo scorcio di vita di Francis Scott Fitzgerald. E, per Stanley Donen, una contessa decaduta che, per soavità e savoir-faire, ancora piace, fin troppo: il tutto nella commedia, falsamente licenziosa, L’erba del vicino è sempre più verde (The Grass is Greener, 1960).
Se Leo McCarey, in Un amore splendido (An Affair to Remember, 1957), remake di un suo cavallo di battaglia, le affida il ruolo che era stato di Irene Dunne, è John Huston il cineasta con cui Kerr stringe il sodalizio più laborioso e durevole. Da sempre, la natura, in Huston, instaura, con l’essere umano, un rapporto impari. Indomita e travolgente, lo soverchia o manomette i suoi freni inibitori. È, questo secondo caso, quanto accade nel suggestivo L’anima e la carne (Heaven Knows, Mr. Allison, 1957), in cui, su una selvaggia isola del Pacifico, si ritrovano, soli, un militare (Robert Mitchum) e una monaca (Kerr, alla quale, evidentemente, la tenuta religiosa calzava bene). L’impulso erotico si lascia avvertire (e Deborah è bravissima nel suggerirlo e rattenerlo), ma il richiamo al dovere avrà comunque la meglio. Ed è ancora una natura eccitante ad abbattere i pudori, su imprimatur di Tennessee Williams, nell’estuoso La notte dell’iguana (The Night of the Iguana, 1964), in cui, in un Messico rivierasco e torrido, uno sfibrato Richard Burton deve affrontare l’assedio di una spavalda Ava Gardner, di un’impertinente Sue Lyon e di una dama caritatevole, compita e, in fondo, repressa, un’elogiabile Kerr che si concede alla parte con un’ironia, parrebbe, metalinguistica. Il caleidoscopico James Bond 007 – Casino Royale (Casino Royale, 1967) costituisce, invece, per lei, una delle ultime apparizioni sul grande schermo prima di optare per un progressivo disimpegno dalle scene, mai, per giunta, definitivo, almeno finché la vecchiaia non ebbe il sopravvento insieme al morbo di Parkinson che accompagnò la vedette alla morte nel 2007.
Huston, certo. Forse, però, l’opportunità migliore venne da un regista raffinato come Vincente Minnelli e fu Tè e simpatia (Tea and Sympathy, 1956). Opera che, pur attenuando, per colpa della censura, i contenuti della pièce di Robert Anderson con cui la stessa Kerr aveva calcato le tavole di Broadway, ha saputo imporsi come uno strepitoso melodramma sulla barbarie delle convenienze sociali e del pregiudizio. La consorte incompresa di un rude docente di ginnastica, uno studente diverso dagli altri e, per questo, deriso ed emarginato, la sensibilità speciale di lui, l’accogliente comprensione di lei: cosa esigere di più?
Frutti pregiati diede anche il temporaneo ritorno in patria all’avvento dei Sixties. Nel ‘61, Kerr è, infatti, protagonista di due film di rilievo. Nel thriller Il dubbio (The Naked Edge), Michael Anderson la cala in un roveto hitchcockiano di atroci sospetti coniugali, oggetto dei quali è un povero Gary Cooper al suo ultimo cimento. In Suspense (The Innocents), in cui traspone, lodevolmente, “Il giro di vite” di Henry James, Jack Clayton la investe del ponderoso personaggio dell’istitutrice. E anche se, nel romanzo, la pedagoga ha vent’anni, mentre la star, ormai, il doppio, la scelta non può che dirsi opportuna. Tra occhi sbarrati, visi atterriti e raccapriccio cabrante, a Kerr viene domandata, nella tenzone psicologica con i due bambini corrotti e con l’oscenità inconfessabile del loro passato, un’enfasi superiore al solito che, tuttavia, ella padroneggia con fermezza, sicché l’intensità espressiva non deborda mai in una mimica stucchevole né, peggio ancora, nel ridicolo.
L’irregolarità, la lascivia, la putredine dietro il velario della normalità e dell’apparente innocenza sono, d’altra parte, una materia che Deborah Kerr, tra un pianto e un sorriso, ha sempre indagato. Con gli strumenti di una grande attrice.

Dario Gigante

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