La mia fine e il suo inizio
Darling è una danzatrice danese di fama mondiale. Dopo una lunga assenza, lei e il marito Frans tornano a far parte del Royal Danish Ballet di Copenhagen per mettere in scena il balletto classico Giselle. Lei interpreterà il ruolo principale, con Frans in veste di coreografo. Durante le prove, però, Darling crolla a terra in preda al dolore. Per quanto cerchi di negare la verità, la prognosi è chiara: la sua anca è irrimediabilmente fuori uso. Non danzerà mai più. La sua vita professionale, il suo mondo, è a pezzi. Ma Darling non si arrende e decide di formare la sua sostituta, una giovane danzatrice di nome Polly, per trasformarla nella Giselle che lei non potrà più essere. Quando però Polly diventa il centro dell’attenzione, in particolare di Frans, la stabilità emotiva di Darling comincia a cedere.
Come avrete già intuito dalla lettura della sinossi, Darling, secondo lungometraggio di Birgitte Stærmose, presentato in concorso alla 19esima edizione del Festival del Cinema Europeo di Lecce dopo un fortunato tour nel circuito festivaliero internazionale (da Londra a Santa Barbara, passando per Göteborg), ha nel DNA tutti – nessuno escluso – i temi e gli stilemi del ricco filone danzeresco. Qui coesistono senza sgomitare un’anima autoriale e un’altra decisamente più commerciale, quanto basta per portare a sé platee diverse e gusti diversi. Nella pellicola diretta dalla cineasta danese, infatti, sono presenti tutti quegli elementi che ieri come oggi hanno e continuano ad animare e alimentate il suddetto filone: fatica, sacrificio, competizione, dedizione, severità, sale prove e ovviamente la danza legata alla componente coreografica. Ciononostante c’è qualcosa che consente all’operazione di distaccarsi in parte dalle scelte sposate da gran parte degli autori che nei decenni si sono confrontati con questa tipologia di film. Quel qualcosa, come potrete scoprire nel corso della visione, è un controcampo narrativo e drammaturgico che restituisce sullo schermo il cosiddetto lato B, quello che il più delle volte viene sacrificato in fase di scrittura per assecondare i canoni ormai consolidati e codificate dalle platee. Per non rischiare si tende il più delle volte a prediligere la componente coreografica e tutto ciò che la riguarda, per non deludere le aspettative del fruitore. Di conseguenza, dalle cinematografie delle diverse latitudini, salvo rarissime eccezioni come Il cigno nero, sono state partorite pellicole e storie fotocopia, che non hanno fatto altro che rafforzare una linea produttiva stereotipata e schematica.
In Darling, pur attingendo a piene mani dal filone in questione, la Stærmose fa una scelta di campo ben precisa aprendo sulla timeline moltissime finestre narrative dedicate alla dimensione intima e privata dei personaggi, in particolare della protagonista, qui interpretata da una bravissima e dolente Danica Curcic. Quest’ultima ha dato un contributo notevole alla causa con un’interpretazione che ha donato al personaggio stesso e al pubblico un ventaglio di emozioni e stati d’animo fortissimo. Questo consente di esplorare più in profondità la reazione di una grande artista di fronte a una tragedia professionale e personale, mostrando e raccontando così i due rovesci della medaglia: la ballerina e l’essere umano, con tutto il carico di paure, fragilità e debolezze, al seguito. L’aver puntato su tale aspetto crea quello spessore in più che permette al tutto di acquistare un valore che altri film, più o meno analoghi, non sono riusciti a raggiungere. Un percorso, questo, reso possibile non solo dalle scelte messe in atto in fase di scrittura, ma anche da quelle operate tecnicamente, con una macchina da presa perennemente attaccata ai corpi per creare spazi intimi tra l’hardware di ripresa e l’attore in scena. Il tutto immerso in una dimensione realistica che trova la complicità nella fotografia di Marek Wieser, costruita usando solo la luce di volta in volta disponibile nella location.
Francesco Del Grosso