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Dafne

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VOTO: 7.5

Essere se stessi

Un’altra storia di sentimenti per il regista e sceneggiatore Federico Bondi, classe 1975. Un altro lungometraggio, girato ad oltre dieci anni di distanza dall’ottimo Mar nero (2008), che adotta una pratica di totale dissimulazione nel reale come tratto distintivo. Dafne – presentato alla Berlinale 2019 nella sezione Panorama – prende perciò il titolo dal nome della sua protagonista. Cioè una ragazza sui trent’anni affetta dalla cosiddetta Sindrome di Down. Ne studia i comportamenti. Ne misura quasi il respiro. Un pedinamento di stampo zavattiniano che, soprattutto oggi, in tempi in cui l’immagine corre veloce negli occhi e poco si instilla nella mente di chi guarda, potrebbe risultare sin troppo desueto. Al contrario, Dafne è un’opera che riporta la messa in scena cinematografica ad una dimensione atemporale, del tutto priva di qualsiasi assillo cronologico. Una sorta di viaggio antropologico teso a raggiungere la condivisione empatica di un personaggio con l’unico, inviolabile, desiderio di trovare la propria dimensione esistenziale.
Pur nella calibrata precisione di uno script perfettamente studiato, Dafne non è, ovviamente, un film narrativo. Non racconta nulla di trascendentale, ma mostra. Accompagna lo spettatore nella conoscenza del personaggio evitando qualsivoglia ipocrisia di finzione. Dafne è quindi ritratta a trecentosessanta gradi. Dalla reazione disperata alla perdita dell’amata mamma ad inizio film (breve ma incisivo ruolo per Stefania Casini), fino agli scatti d’ira per le contrarietà e l’affetto attraverso il quale sostiene e rinnova il rapporto con il padre, profondamente segnato dalla scomparsa del coniuge. Ma anche il suo voler essere donna fino in fondo, a partire dalle innate capacità seduttive così tipiche dell’altro sesso. Il tutto inserito in una cornice di assoluta quotidianità, nella quale si percepisce con chiarezza l’importanza per la protagonista di sentirsi utile e realizzata – Dafne lavora in un ipermercato – rientrando così a far parte di quell’apparato sociale da cui la Natura e il Destino hanno provato ad estrometterla.
In Dafne, inteso come lungometraggio, sarebbe superfluo ragionare su quanto della sua durata effettiva (poco più di un’ora e mezza) costituisca un utile tassello al processo cognitivo nei confronti del personaggio e quanto, invece, possa sembrare magari superfluo. Perché ogni sequenza, alla fine, risulta utile alla ricerca di quel senso ultimo che il film cerca attraverso l’unico mezzo in proprio possesso: la spontaneità. La stessa che ha portato sul set la protagonista Carolina Raspanti, chiamata in pratica ad interpretare se stessa sotto pseudonimo, ad interagire in modo parimenti encomiabile sia con il padre nella finzione (l’ottimo Antonio Piovanelli) che con il mondo circostante. Dimostrando appieno, senza minimamente cadere nelle didascaliche trappole dell’opera a tesi in modalità “buonista”, come la diversità sia solo l’illusione costruita da una società perbenista con il culto di una presunta normalità protesa all’omologazione sino all’eccesso; mentre l’idea di uguaglianza richiede un processo mentale che la connaturata pigrizia di ognuno vorrebbe, al contrario, scartare. In questo senso Dafne porta avanti un discorso universale, del tutto speculare a quello già affrontato, dal punto di vista delle differenze anagrafiche e culturali intese come diversa provenienza geografica, nel già citato Mar nero. Poiché il cinema di Federico Bondi è abituato a mettere, fisicamente e metaforicamente, al centro dell’obiettivo della macchina da presa solamente l’Essere Umano sia nella propria singolarità che nella pluralità, evidenziando le relative pulsioni che, come tale, non può fare a meno di provare.
Ci sembra più che abbastanza per consigliare senza riserve un’opera che prima di tutto è un’esperienza emotiva. Solo in un secondo momento – e molto “tangenzialmente” – un film riuscito.

Daniele De Angelis

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