Dramma contemplativo
Quando pensiamo al cinema portoghese d’autore, inevitabilmente uno dei primi cineasti a venirci in mente è Manoel De Oliveira. Anche se da poco “orfani” del suo cinema, però, di quando in quando ci capita di imbatterci in nomi altrettanto capaci provenienti dalla sua nazione. Uno di questi nomi, ad esempio, è quello di Teresa Villaverde – nata una sessantina di anni dopo rispetto al suo maestro e con un’importante carriera alle spalle – la quale grazie al recente I ponti di Sarajevo ha avuto ulteriormente modo di farsi conoscere meglio anche a livello internazionale. E, così, il suo ultimo lungometraggio, Colo, è stato fin da subito uno dei titoli più attesi della 67° Berlinale. E lo è stato a ragione. Infatti, salvo rare eccezioni, tale lungometraggio è stato uno dei pochi lavori ad essere riuscito a mettere d’accordo, in linea di massima, sia pubblico che critica.
Non è facile, contrariamente a quanto inizialmente possa sembrare, mettere in scena una crisi famigliare. Soprattutto quando di mezzo ci sono figli adolescenti. Il rischio maggiore, infatti, è quello di rappresentare una serie di luoghi comuni talmente sentiti e risentiti da risultare addirittura imbarazzanti. Cosa spesso accaduta, purtroppo. Eppure, in questo caso, ci troviamo di fronte ad un prodotto che non ha alcuna pretesa di emettere sentenze in merito, ma che, grazie ad uno sguardo attento e sensibile, ci regala una storia come tante, ma allo stesso tempo unica nel suo genere, con personaggi perfettamente tridimensionali e non poche sfumature al suo interno. È la storia, questa, dell’adolescente Marta, la quale vede disgregarsi, sotto i propri occhi, il suo nucleo famigliare. Suo padre è disoccupato e terrorizzato che la moglie possa lasciarlo. Sua madre lavora tutto il giorno, ma fa fatica a pagare le bollette da sola. Nessuno, però, sembra accorgersi dei disagi vissuti dalla ragazza, la quale si sente compresa solo dalla sua amica Julia, incinta di pochi mesi ed anch’ella in difficoltà a causa dell’inaspettata gravidanza.
Ciò che fin da subito colpisce, in questo lavoro della Villaverde, sono gli intensi primi piani della protagonista, interpretata dalla giovane e talentuosa Alice Albergaria Borges. E, fin dall’inizio, la macchina da presa continua a seguire fedelmente la ragazza, senza, però, togliere spessore a ciò che la circonda. Con poche, ma significative inquadrature, infatti, ecco delinearsi man mano le vere dinamiche che legano i protagonisti della pellicola. Il tutto realizzato senza mai cadere nel banale e lasciando allo spettatore anche una grande libertà di interpretazione. Ed ecco che la routine quotidiana rappresentata fin dall’inizio lascia spazio, man mano ad inevitabili – e drastiche – svolte narrative, pur mantenendo sempre un andamento prevalentemente contemplativo, perfettamente in linea con la cinematografia portoghese. Un film, questo, che pur mettendo in scena una storia come tante altre, sa colpire nel punto giusto. Particolarmente degna di nota, a tal proposito, l’inquadratura finale, in cui vediamo, in notturna, un deposito isolato all’interno del quale Marta ha trovato rifugio: è in questo momento che, ascoltando i rumori della notte, la macchina da presa si avvicina lentamente alla costruzione per poi allontanarvisi definitivamente, lasciando la protagonista in balìa del suo stesso, incerto destino. Ancora una volta, dunque, la parola è lasciata alle immagini. E, anche per questo, Colo è da considerarsi uno dei prodotti più raffinati ed interessanti presentati in concorso. Uno dei pochi film presenti che sa scavare, con grazia, nei nostri animi.
Marina Pavido