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Cinéma Satie

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Il franco tiratore

Colto e popolare, ombroso e ludico. Dedito, in stagioni differenti, alla modalità e al contrappunto; fedele, infine, alla sua maniera soltanto. Inventore di canzoni disimpegnate per il café chantant e capace di trarre un dramma sinfonico dai dialoghi platonici. Antiaccademico, avverso ai cascami del Romanticismo ma insofferente anche alle tenuità impressionistiche. Profeta delle avanguardie. Provocatore irriverente che piega formati tradizionali (preludi, notturni) alla sua personalità beffarda e dissacrante e vi applica titoli balzani, gemme di assurdità e ironia. Erik Satie, al secolo Éric Alfred Leslie, è stato tutto questo e molto altro, personaggio bigger than life le cui bizzarrie, talvolta, hanno interferito con la percezione dell’immensità del compositore. D’altro canto, uno che, dopo una corriva incursione nella confraternita dei Rosacroce, fonda l’effimera Église métropolitane d’art de Jésus-conducteur (!) e se ne proclama gran sacerdote…
Nato in Normandia nel 1866, Satie moriva, nella Parigi che l’aveva accolto già in tenera età, il primo luglio 1925, cento anni fa esatti, per una cirrosi epatica scaturita dalla frequentazione disinvolta e tossica con l’assenzio. Uomo singolare e autore straordinario, nulla da obiettare; ma perché una rivista di cinema dovrebbe occuparsene, perché dovrebbe offrire il suo contributo alle celebrazioni che il centenario va moltiplicando? Il motivo c’è: sia direttamente che indirettamente, Satie ha foraggiato la settima arte di musica. Di più: la sua presenza empirica o spettrale costituisce, qua e là, l’edicola votiva che segnala svolte cruciali nell’evoluzione del linguaggio audiovisivo.
Sua, basti ricordare questo, è la partitura che accompagnò, nel 1924, la proiezione di Entr’acte, inequivocabile manifesto dadaista, intermezzo, appunto, dello squinternato balletto Relâche, il cui librettista fu niente di meno che Francis Picabia. Diretto da René Clair, futura gloria del grande schermo, il cortometraggio non può certo essere raccontato come una favola, dato che campa della concatenazione illogica di sketch e bagliori fantastici, un uragano di follia da cui lasciarsi travolgere. A partire dallo sparo di un cannone caricato da due signori, accade di tutto. E i due sono uno Picabia, l’altro, cilindro identificativo in testa, al braccio uno degli ombrelli di cui era accanito collezionista, il nostro Erik. Ballerine che fluttuano, guantoni da box che assestano un pugno allo spettatore, una partita a scacchi su un tetto fra Marcel Duchamp e Man Ray interrotta da una colata d’acqua, un gentiluomo (il danzatore Jean Börlin, nel cast di Relâche) che tenta d’impallinare un uovo con il suo fucile ma finisce ammazzato, le esequie, con tanto di feretro trainato da un dromedario, che si tramutano in una slapstick comedy. Alla fine, dalla tomba uscirà un prestigiatore che, a colpi di bacchetta, farà scomparire tutti, sé stesso incluso.
Per un variopinto organico di archi, fiati e percussioni, Satie, intestatario, naturalmente, anche degli spartiti per il balletto, approntò Cinéma, brano che, con piglio smargiasso e ritmo da fanfara, non solo diverte, ma asseconda magistralmente il montaggio frastornante, i ralenti, le accelerazioni, le intemperanze del film. E la citazione, quando il carro s’avvia, di Marche funèbre, dalla sonata No. 2 Op. 35 di Chopin, è la ciliegina sulla torta.
Difficile indovinare se l’avvento del sonoro avrebbe favorito altre teofanie ispiratorie della decima Musa: il compositore già non c’era più. Di certo, la celluloide ha spesso risuonato delle sue creazioni.
Quando, nel 2017, Luca Guadagnino, in Chiamami col tuo nome, mette al pianoforte della villa di campagna l’Elio di Timothée Chalamet, cimentandolo nell’incalzante movimento d’apertura della Sonatine bureaucratique del 1917, nell’estate di note in libertà e suoni inebrianti e calde luci e umori corporali nella quale il ragazzo diverrà uomo, rende solo uno dei più recenti tributi che i cineasti abbiano conferito al maestro normanno. Con una particolare predilezione, va da sé, per la sua opera più celebre, il trittico pianistico delle Gymnopédies (1888), ipnotiche nell’iterazione, con minime varianti, di uno stesso costrutto melodico, seducenti nella loro saturnina soavità.
Non meraviglia che pezzi simili corrispondessero ai gusti di un regista di setosa eleganza come Mauro Bolognini che, in Agostino (1962), inserisce, fin dal prologo, la prima, nella versione orchestrale di Carlo Rustichelli. Bellezza e tristezza: la Gymnopédie, da subito, con la sua dolcezza, registra le pulsazioni della simbiosi affettiva tra il protagonista e la madre, ma, con i suoi risvolti mesti, suggerisce quanto ciò, per il bambino, sia deciduo e anticipa la sorte di abuso e squallore che il racconto moraviano consegna all’adattamento. Sempre la prima delle tre, nell’esecuzione, stavolta, di Joseph Villa, saluta lo scioglimento del verboso incontro fra André Gregory e Wallace Shawn nel Kammerspiel di Louis Malle La mia cena con Andre (My Dinner with Andre, 1981) e accompagna il ritorno a casa in taxi di Shawn in una New York notturna, sospesa, alienante. Il meglio, tuttavia, lo ha sortito Woody Allen, impiegando la No. 1, nell’orchestrazione illustre di Claude Debussy, vecchio amico di Satie, in Un’altra donna (Another Woman, 1988), uno dei suoi capolavori drammatici. No, lo swing che, usualmente, fa da sottofondo ai titoli di testa alleniani non avrebbe comunicato adeguatamente la temperatura emotiva di un film che è speleologia di un’anima ubbiosa, assalita da ricordi e rimpianti. La Gymnopédie vi riesce. E, coerentemente, andrà a commentare anche i titoli di coda. Impagabile è, tuttavia, la sua collocazione in medias res, nella scena in cui la Marion di Gena Rowlands sogna di entrare in un teatro off e assistere alla messinscena della sua infelicità coniugale, per subito scoprire che l’attrice che la impersona, l’amica che, nei domini della veglia, non ha di lei un’opinione lusinghiera, si è sposata con lo scrittore che, in passato, Marion aveva, malauguratamente, respinto. Quanta suggestione e commozione aggiunga la musica è superfluo indicarlo.
Magiche, intramontabili Gymnopédies. Tanto che, nel corpus di Satie, a poter aspirare a insidiarne il primato sono soltanto le sei Gnossiennes, composte, per piano solo, a partire dal 1889 e proficuamente sfruttate dal cinema. Qualche esempio?
Opus testamentario, datato 1993, Blue di Derek Jarman è uno dei lungometraggi più radicali ed estremi di sempre. E la Gnossienne No. 1 vi è contenuta. Una distesa di International Klein blue, la tinta brevettata da Yves Klein, è tutto ciò che ci è dato ammirare, rappresentazione paradossale della cecità a cui l’AIDS aveva spinto Jarman. Cecità di Tiresia, tuttavia, che, al riparo dalle distrazioni e dai depistaggi dei fenomeni, vede più in là, scruta l’essenza della realtà. Stesso itinerario concettuale, mutatis mutandis, della pittura astratta. Sfondano, infatti, la superficie delle cose, le riflessioni filosofiche affidate alle voci narranti. E, a un certo punto, da una colonna sonora che è un’enciclopedia dell’udibile, affiora, eterea, la Gnossienne. Alla tastiera, fatto piuttosto inconsueto, il direttore d’orchestra Jan Latham-Koenig. Struggenti e misteriose come folate d’aura scesa da altitudini ontologiche inesplorate, le sei pagine cameristiche, nella loro essenzialità (appunto…), sono depositarie degli aneliti spirituali del compositore, in uno dei suoi periodi più inclini al misticismo. Per Blue, paiono scritte apposta.
Vi è, poi, chi ha usato sia le Gymnopédies, sia le Gnossiennes in una stessa pellicola. E riecco Malle. Che, nel ‘63, attinse a entrambi i cicli, registrati da Claude Helffer, per descrivere, in Fuoco fatuo (Le feu follet), le peregrinazioni urbane, cammino verso il suicidio, dell’Alain di Maurice Ronet. Prelevò da ambo i polittici, ma nelle interpretazioni di Aldo Ciccolini e Jean-Joël Barbier, anche Orson Welles, per sorreggere l’incedere pensoso e connotare le atmosfere di rarefatta sensualità di Storia immortale (Une histoire immortelle, 1968). Certo, benché le risultanze siano esimie, da un tipaccio come Welles era lecito attendersi una scelta meno repertoriale, più sardonica e spiazzante.
Vi ha provveduto Terrence Malick, calando, nel suo fulminante esordio La rabbia giovane (Badlands, 1973), una curiosa manipolazione della suite Trois morceaux en forme de poire, nata, per pianoforte a quattro mani, nel 1903 e il cui titolo, letteralmente “tre pezzi a forma di pera”, tutto svela dell’indole dileggiante di chi l’ha partorita. In fondo, non è un umorismo distaccato e nero ad attraversare, come un fiume carsico, la parabola malickiana di caduta e solo apparente redenzione, affaccio su di un nichilismo incorreggibile?
Non sappiamo se La rabbia giovane sarebbe piaciuto a Satie, ma, di sicuro, il corto d’animazione che gli dedicò, nel ‘78, il croato Zdenko Gašparović lo avrebbe, con il suo estro visionario, ingalluzzito. Satiemania è, fra lupanari, viali piovosi e uomini con il cappello, un tuffo nel mondo e nell’immaginario di Erik, una fantasmagoria di colori pastello e associazioni stravaganti. Una dilettevole playlist di estratti da La belle excentrique (1920), Sports et divertissements (1914) e Descriptions automatiques (1913), più due Gnossiennes, il tutto restituito dalle dita sapienti di Ciccolini, conduce una parata d’immagini spaiate, dalle figure che camminano per strada al malcapitato preso a pugni ai rapimenti erotici di una femminilità incandescente. I debiti iconografici con Toulouse-Lautrec si assommano a certe asperità espressionistiche, per poi sfociare, nel finale, in un’aperta citazione di Campo di grano con volo di corvi di Van Gogh. Un piccolo gioiello, insomma. Beau come una carezza, excentrique come solo Erik Satie ha saputo essere.

Dario Gigante

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