Ognuno ha il suo peccato
Con l’usuale penna rossa critica va istantaneamente contrassegnato il titolo della distribuzione italiana, che chiaramente segue, per ovvi motivi di vendita del film ai lettori, il già tradotto titolo del romanzo di Jane Harper, edito in Italia da Bompiani (2018). Per quanto possa essere religiosamente evocativo – e pertinente alle vicende della trama – la titolazione italiana toglie quella secchezza presente nell’originale (del libro e del film). L’arsura citata non è solamente quella provocata dal torrido clima, che mette in ginocchio un’ampia porzione dell’Australia agricola, ma è anche quella che subissa i caratteri dei personaggi della piccola cittadina in cui si svolgono gli avvenimenti narrati. E questa doppia secchezza, visiva ed emotiva, è quello che vuole mostrare, per immagini, Chi è senza peccato (The Dry, 2020) di Robert Connolly, ovvero quell’aridità ambientale e caratteriale che pare sia un tutt’uno, con la seconda estensione della prima (già intaccata da accadimenti pregressi).
Il romanzo di Jane Harper ha riscosso un ottimo successo a livello internazionale, non solo perché il thriller è un genere che funziona, incatenando i lettori nelle trame che tendono a svelare il colpevole (e la verità) soltanto al termine, ma anche per la capacità, a volte, di fornire un affascinante studio di caratteri, attraverso personaggi intriganti. Il giallo della Harper veleggia principalmente verso questo secondo aspetto, e l’indagine sul temibile assassinio di una donna e un bambino gli serve per descrivere l’ambiente che vi gravita intorno. Un metodo di costruzione che, a livello cinematografico, era stato molto ben sfruttato da Michelangelo Antonioni, che usufruiva dei plot gialli (un ritrovamento o una scomparsa di un personaggio) per indugiare nell’ambiente e tra i personaggi. La versione cinematografica di “Chi è senza peccato” è stata curata dallo stesso regista assieme ad Harry Cripps, e rispetta le impostazioni date su carta dalla Harper, essendo in un certo qual modo un testo solido. Quello che il regista aggiunge, per rendere più canicolare e, in un certo qual modo, claustrofobica la trama, sebbene sia sempre in ampi spazi aperti, è una messa in scena in cui i personaggi soccombono all’ambiente. Per il protagonista il ritorno alla cittadina natia, dove ancora aleggiano i fantasmi del suo passato, è opprimente sin dall’inizio. Il rientro in un luogo che il protagonista si era voluto lasciare alle spalle funge da torcia per mostrare come le cose non siano cambiate, e su come ogni abitante ha un peccato da nascondere. Chi è senza peccato tutto sommato funziona come giallo, soprattutto se lo spettatore non ha letto il romanzo, quello su cui pecca il regista Connelly è l’uso dei flashback, a volte troppo eclatanti, e nella costruzione visiva del finale. Le parti migliori restano quando le immagini rendono concrete quelle aridità di ambiente e di carattere, e infatti la messa in scena è secca, senza fronzoli. Molto buona anche la prova di Eric Bana, che cesella un personaggio tanto sicuro quanto fragile.
Roberto Baldassarre