Home Festival Roma 2024 Bogart: Life Come in Flashes

Bogart: Life Come in Flashes

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VOTO: 7,5

Sulle tracce di un Mito

Humphrey Bogart. Ovvero Casablanca, La foresta pietrificata, Il mistero del falco, La regina d’Africa, solo per citare alcuni dei film che lo hanno fatto entrare nella leggenda. Confrontarsi con la carriera e con la biografia di certe icone di Hollywood può rappresentare un’impresa esaltante, ma non priva di rischi, tra i quali spicca senz’altro la possibilità che un’opera così concepita non arrivi neanche a sfiorare la grandezza del soggetto in questione. Nel caso di Bogart: Life Come in Flashes, il documentario di Kathryn Ferguson presentato in questi giorni alla Festa del Cinema di Roma 2024, tale ricerca ha avuto per fortuna un esito alquanto felice, data la sensibilità con cui la cineasta britannica ha saputo accostarsi tanto alle interpretazioni che al versante privato del buon vecchio “Bogie”.

Stilisticamente, ciò che colpisce in positivo di Bogart: Life Come in Flashes è anche il così armonico equilibrio raggiunto dalla regista tra il materiale di repertorio, da lei sapientemente selezionato, e quei brevi, quasi subliminali inserti di fiction, tesi più a sottolineare la valenza iconica e archetipica di certi passaggi biografici che a costruire veri e propri frammenti narrativi; tali sono ad esempio quei minimali tableaux vivants inerenti alla passione per gli scacchi (sfruttando la quale l’attore riusciva persino ad arrivare a fine mese, nei momenti più difficili affrontati a inizio carriera) o l’esistenza idilliaca assieme alla quarta moglie Lauren Bacall e ai figli nella loro grande villa con piscina.
Funzionali al completamento del mosaico sono poi gli stralci delle interviste, tra cui quella così preziosa al figlio Stephen Humphrey Bogart, ed il fluire attraverso voci fuori campo di qualche altra testimonianza biografica estrapolata dalle memorie di Bogie stesso, delle sue ex mogli (i matrimoni furono in tutto quattro, tutti con donne di talento incontrate sul set o sul palco), nonché dei grandi attori e cineasti (vedi Howard Hawks e John Huston) con cui ebbe occasione di lavorare.

Si ripercorre così, dalla formazione a New York fino allo straziante capitolo della malattia (davvero toccante qui la testimonianza, mediata dalle parole di Lauren Bacall, di un’ultima visita che gli fece l’amico e collega Spencer Tracy), della morte e dei funerali, una parabola artistica e umana di assoluto spessore. Dal debutto in teatro o dalle poco incisive apparizioni sullo schermo avvenute tra la fine del muto e l’avvento del sonoro, considerate meno brillanti anche dalla critica dell’epoca anche perché legate a ruoli a lui non particolarmente congeniali, si approda pertanto alle grandi interpretazioni della maturità, molte delle quali legate a un genere ben preciso e cioè il noir. Nel documentario si arriva persino ad ironizzare, con umorismo tipicamente britannico, sulle tante volte in cui Bogart alla fine di una pellicola veniva ucciso o arrestato, conseguentemente al ruolo di “villain” spesso assegnatogli.
Senza lesinare dettagli riguardanti la sua vita privata o le grandi passioni, su tutte quella per le barche trasmessagli in qualche modo dal padre, Kathryn Ferguson mostra comunque rispetto nel ripercorrere le tappe di una vita particolare, quella di un divo che non si compiaceva mai troppo della posizione raggiunta ma che lavorava costantemente per migliorare come attore; rimarcando poi giustamente certe sue posizioni eticamente rilevanti, come il suo essere uomo di sani principi e al contempo sprezzante nei confronti di quella subdola affermazione della censura nella società americana, avvenuta sia al varo del famigerato Codice Hayes che nella fase ancora più vilrulenta del “Maccartismo”.

Stefano Coccia

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