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Birds Without Names

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VOTO: 7

Passioni e vendette

Le metropoli giapponesi pullulano di anime perdute, smarrite nella solitudine che loro stesse si sono costruite. Un tema che il cinema nipponico ha declinato molto spesso, attraversando i generi più svariati, quasi a ribadire quella che appare come una condizione costante della vita (a)sociale. Non fa eccezione nemmeno Birds Without Names – e già il titolo internazionale qualche segnale in tal senso lo manda – lungometraggio diretto da Kazuya Shiraishi e tratta dal romanzo di Mahokaru Numata.
Il film – presentato nella Selezione Ufficiale all’interno della dodicesima edizione della Festa del Cinema di Roma – introduce subito personaggi discretamente borderline inseriti in contesti a dir poco curiosi. La protagonista femminile Towako, piacente ragazza di poco oltre i trent’anni, condivide un appartamento popolare con il cinquantenne Jinji, sorta di tipo fantozziano dall’aspetto sgradevole, la goffaggine connaturata ma anche affetto da una sorta di cieca dedizione nei confronti della donna. La quale, pur essendo in pratica mantenuta dall’uomo, rifiuta sdegnosamente le sue rare avance sessuali. Ovviamente si è portati a sospettare che ci sia sotto qualcosa. Un qualcosa che, per l’appunto, si annida in un passato da cancellare ma che riemergerà con tutto il proprio, inevitabile, carico di sensi di colpa.
La parte più affascinante dell’opera di Shiraishi sta tutta nel fluido lavoro di passaggio tra diversi generi sulla carta parecchio distanti tra loro. Nel suo incipit, Bird Without Names appare come una sorta di dramma esistenziale alla Michelangelo Antonioni – oppure alla Tsai Ming-liang, tanto per rimanere ancorati alle cinematografie asiatiche – senza peraltro avvicinarsi alla consistenza psicologica dei due citati maestri. Quindi, man mano che avanza, la vicenda narrata si tinge di sangue, facendo scivolare la pellicola nel thriller-noir a carattere sentimentale: ci sono delle persone misteriosamente scomparse (un amante di Towako), la polizia indaga mentre i comportamenti dei due personaggi principali, appunto Towako e Jinji, si fanno gradatamente sempre più ambigui. Ognuno di essi nasconde una metà oscura, dei segreti che tentano disperatamente di tenere nascosti negli insondabili meandri dell’inconscio, laddove la memoria – di lei – parrebbe averli seppelliti. Si giunge dunque alla catarsi finale, tinta di cristallino melodramma: l’amore vero non conosce limiti e condurrà sino all’estremo sacrificio, al fine di consentire la sopravvivenza non solamente fisica della persona amata. Il tutto raccontato sicuramente con qualche ingenuità di troppo – certi scarti narrativi, collocati in un certo modo nella diegesi, dovrebbero sorprendere ma risultano abbastanza prevedibili – ed una regia a tratti eccessivamente timida nella prima metà del film; ma anche con una sincerità di intenti che colpisce. L’empatia spettatoriale scatta soprattutto nei confronti di Jinji, personalità capace di annullarsi completamente nell’assecondare il proprio feticcio amoroso. Ulteriore dimostrazione di quanto l’istinto umano si muova sempre secondo percorsi sconosciuti e altamente soggettivi, specificamente quando entra in ballo quella follia che per comodità potremmo definire infatuazione assoluta. Se non amore totalizzante.
In fondo è questo che racconta, almeno a livello subliminale, un’opera a carattere universale come Birds Without Names: ad ogni pulsione d’amore non corrisposta, o magari corrisposta per un lasso di tempo limitato, qualcuno muore, fisicamente o moralmente. Un gioco al massacro messo in scena da Shiraishi con un certo gusto per l’eccesso formale e di contenuto, aspetto che rende il film, soprattutto nella seconda parte più dichiaratamente di “genere”, in grado di attirare l’interesse di chi guarda. Nonché di stimolare nella platea qualche possibile rimpianto su ciò che poteva essere a portata di mano in passato ed ora non lo è più. Con la vita che, senza alcuna pietà né rispetto, in qualche modo prosegue il proprio corso.

Daniele De Angelis

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