La primavera araba che fa discutere
È una specie di “Tunisia anno zero”, il lungometraggio diretto da Jilani Saadi, che non cessa di far discutere negli ambienti culturali magrebini. A dargli contro sono stati soprattutto gli artisti e gli intellettuali più restii a metabolizzare in profondità le ripercussioni dei cambiamenti politici, economici, sociali, su un’estetica che loro, a quanto pare, preferirebbero mantenere “pulita”, conforme a una prassi consolidata, meramente calligrafica. Senza quindi la possibilità di fughe in avanti. Parliamo di coloro, insomma, che magari a parole appoggiano la ventata di cambiamento portata dalle cosiddette “primavere arabe” e dalla caduta in Tunisia del regime di Ben Ali, ma faticano poi ad accettare che le nuove energie possano passare anche attraverso uno sguardo cinematografico più spurio, disarticolato, non convenzionale, atto in questo a raccogliere le tante contraddizioni del reale.
Il regista di Bidoun 2, peraltro, è uno che a quanto ci è stato detto faceva in passato (spiccano nella sua filmografia Khorma, enfant du cimetière del 2002, Ors el-dhib del 2006) un cinema molto più tradizionale, almeno riguardo alla forma. Ma evidentemente ha avvertito per primo la necessità di adeguare l’impronta stilistica e produttiva dei propri lavori al nuovo corso iniziato nel paese di provenienza. Di questo si è potuto parlare direttamente con lui grazie al MedFilm Festival, che lo ha ospitato in concorso nell’edizione svoltasi a Roma lo scorso novembre. Grande entusiasmo nel presentare il regista tunisino sia da parte della direttrice Ginella Vocca, sia da parte del critico Giona A. Nazzaro, che con accortezza e lucidità ha sollecitato Jilani Saadi ad analizzare insieme a lui alcuni degli spunti più interessanti, forti, polemici, non omologati e non omologabili, di cui si fa carico questa sua nuova (e già controversa) opera.
Del resto un film come Bidoun 2, sotto vari aspetti, non può che sconcertare, lasciando lo spettatore alle prese con un fitto canneto di immagini, non necessariamente belle ma sempre in qualche modo evocative, che riflettono tanto il caos che le inquietudini che le speranze serpeggianti in Tunisia, nel periodo immediatamente successivo alla cacciata di Ben Ali.
Lo scenario che si profila all’inizio è una sorta di quiete apparente. In realtà le emittenti locali rimandano di continuo interventi, polemiche, dibattiti inerenti alla modifica dell’articolo 6 della Costituzione per decretare la libertà di culto. Questi primi accenni di liberalizzazione dei costumi sembrano già scontrarsi con forze più reazionarie, che vorrebbero tenerli a freno. Ed è in una cornice del genere che avviene il (problematico) incontro/scontro tra i due giovani protagonisti, sia lui che lei con vicende personali abbastanza complicate da gestire, il cui peregrinare assieme in auto diviene ben presto un’allegoria di quello sbandamento, di certo rischioso ma anche produttivo, creativo, latore di modifiche profonde nel tessuto sociale, cui le nuove generazioni stanno andando incontro.
Eppure, in questa quasi beckettiana e comunque straniante ricognizione di territori, sia fisici che mentali, c’è anche un terzo incomodo: il personaggio che a un certo punto la curiosa coppia formata da Abdou e Aida si porterà appresso, pensando di averlo investito per sbaglio con la macchina, è un soggetto più anziano (guarda caso) che avevamo già scoperto a mendicare con una veste viola (il colore preferito dell’ex dittatore, ci spiegherà poi il regista), la cui presenza inizialmente silente e passiva si colorerà strada facendo di sfaccettature decisamente più inquietanti.
Road movie atipico e surreale, racconto metaforico ancorato però a luoghi dalla densità materica molto marcata, nonché ben noti al regista, Bidoun 2 sembra riallacciarsi alla libertà espressiva della nouvelle vague da una prospettiva ancora più sfacciata, in cui rientrano a pieno titolo le insistite soggettive, l’uso di inquadrature grandangolari al limite del tollerabile, la continua disarticolazione degli elementi spaziali a favore di un proficuo spaesamento. Proficuo, sì, perché il disagio dei protagonisti e dello spettatore nel rapportarvisi allude bene alle incertezze di un paese, la Tunisia, che ha intrapreso un cammino difficile ma necessario. E quella maggiore leggerezza che i due giovani protagonisti avvertono soltanto a contatto col mare (simbolicamente affascinanti le riprese in acqua), un liquido orizzonte degli eventi che fa sentire più sciolti, più liberi, è un controcampo altrettanto importante, in quanto alle angosce del presente contrappone una possibile emancipazione, un’auspicabile catarsi individuale e collettiva.
Stefano Coccia