Per grazia divina
Di Leone nel basilico se ne erano perse le tracce, tanto da chiedersi che fine avesse fatto. Le ultime risalgono, infatti, a un po’ di tempo fa e a qualche proiezione in ambito festivaliero (tra cui il Foggia Film Festival dove si è aggiudicato il premio “Italian Movies” nella sezione lungometraggi). Lo smarrirsi nel labirintico circuito distributivo battente bandiera tricolore del resto non è una novità, ma pratica piuttosto comune viste le statistiche. Capita ed è capitato a opere di spessore e di buona fattura, il destino infame di scivolare inspiegabilmente nel dimenticatoio a causa della mancanza di opportunità, al contrario di quanto accaduto a film che invece l’invisibilità se la sarebbero meritata e come. Uno di questi è proprio il quarto lavoro per il grande schermo di Leone Pompucci, che torna al cinema dopo un’astinenza lunga quindici anni (Il grande botto), che lo ha visto alle prese nel frattempo con la più redditizia scrittura e regia di serie e mini-serie per la tv (da Don Matteo a Il sogno del maratoneta, passando per La fuga degli innocenti). A tre anni circa dalla sua realizzazione (lo script risale al 2012), la pellicola del regista romano si affaccia nelle sale cinematografiche per “grazia divina”, con le quindici copie messe a disposizione da Microcinema a partire dal 10 dicembre. Ma per la legge del contrappasso, ci penserà la scelta suicida – vero e proprio harakiri a nostro avviso – di gettarlo nel calderone pre-natalizio a rispedirla dritta dritta al mittente, in quel dimenticatoio dal quale non sarebbe mai dovuta essere ripescata. Purtroppo, ciò è avvenuto e a noi tocca l’ingrato compito di buttare giù un’analisi critica che, come avrete intuito dall’incipit, non sarà per niente positiva.
Pompucci mette la firma sulla regia di un film scritto a quattro mani con Giovanna Mori, un film che racconta la storia di Maria Celeste, una vedova sessantenne che vive in una casa di cura. Un giorno come tanti, la donna si addormenta in una stazione ferroviaria per poi essere svegliata da una ragazza che, dopo averle messo tra le braccia un neonato, scappa via. Vagato in lungo e in largo per le strade assolate e afose di una Roma estiva, decide di affidarlo alla polizia, ma la madre ritorna a riprenderlo e finiscono per trascorrere la mattina insieme, fino a quando Maria Celeste sarà testimone della morte della ragazza. La protagonista si troverà a dover salvare quel bambino e salvandolo, finirà con il salvare se stessa.
Il dna drammaturgico e il tono di Leone nel basilico sono fin troppo chiari già dalla lettura della sinossi. Trattasi di una “favola religiosa” come ama definirla il cineasta romano a proposito della natura spirituale e metaforica dei personaggi che la popolano, ma anche delle vicende che animano la timeline. Cavalcando l’onda della suddetta definizione, alla conferenza stampa capitolina lo hanno battezzato ironicamente come il vero film di Natale e tra un cinepanettone e un blockbuster, a parte l’ambientazione balneare e la stagione in cui si svolge, ripensando ai significati simbolici e religiosi che Pompucci le attribuisce, forse non è poi così sbagliato. Di sbagliato c’è, invece, tutto il resto, a cominciare dalla scrittura sino ad arrivare alla sua trasposizione. Più che a una “favola religiosa”, noi preferiamo piuttosto pensare a una commedia surreale. Il regista non è nuovo al genere, declinato però in passato con altri tipologie di registro e di sfumature, come nel caso del fortunato esordio del 1993 dal titolo Mille bolle blu o nei successivi Camerieri e Il grande botto. Quella surreale è una commedia molto rischiosa da maneggiare, perché si muove sempre sul filo. Ma su quel filo ci devi sapere camminare come un equilibrista, altrimenti la caduta è inevitabile. La scrittura si rivela schizofrenica, piena di passaggi a vuoto e incerta sulla strada da seguire. I continui cambi di rotta per quanto riguarda le tonalità di registro non consentono a uno di questi di emergere quanto basta a traghettare la storia e i suoi personaggi. I temi trattati, tra cui quello della seconda possibilità nella vita e della redenzione, non sono sufficienti a colmare le esigenze delle innumerevoli stratificazioni narrative messe in piedi. La sensazione è di trovarsi al cospetto di un’architettura apparentemente ricca e solida, alla quale mancano però le mura portanti. Non a caso, la struttura del racconto ci mette davvero poco a cedere sotto il peso delle troppe intenzioni perseguite, interessanti e nobili sulla carta, ma mal supportate. Coloro che la percorrono, ossia i personaggi, in primis quello della protagonista (interpretato in maniera altalenante da una Ida Di Benedetto che si sforza in tutti i modi di farsi carico del ruolo e del film come accaduto già in Rosa Funzeca), sono le prime vittime sacrificali ad essere immolate sull’altare del chi troppo vuole poco stringe.
Pompucci, cinematograficamente parlando, sembra aver perso lo smalto e lo slancio creativo dei bei tempi che furono, quanto basta per confezionare un’opera che, anche tecnicamente, percorre ostinatamente la via dell’abbondanza, inseguendo una serie di soluzioni che non portano a una cifra stilistica omogenea e coerente. La semplicità e la leggerezza nel tocco, nell’approccio e nello sguardo, quelle che l’autore ha dichiarato di aver sposato per la realizzazione dell’opera, non sono esattamente ciò che poi si è manifestato sullo schermo. Tra le tante mancanze emerse dalla visione di Leone nel basilico, questa saturazione della e nella messa in quadro, che non rispecchia per niente le capacità riconosciute a una mano esperta come quella del regista capitolino, è senza alcun dubbio la colpa più grande.
Francesco Del Grosso