Alla ricerca del sé che si è perduto
Noi siamo ciò che ricordiamo. Le nostre esperienze, azioni, i nostri pensieri, desideri. Noi siamo la nostra memoria. Conservato e consolidato nella nostra mente il nostro passato ci determina e scolpisce. Anche quando non lo ricordiamo, anche quando lo perdiamo. Gli antichi greci già ne erano consapevoli, è la nostra mente che determina ciò che siamo, perderla equivale a perdere noi stessi. Non a caso, del dio Dioniso, dio dell’ebbrezza, avevano un sacro timore. Dai monti della Grecia alle Alpi, la mente continua ad essere elemento centrale dell’identità, tanto che le autrici franco-svizzere Maxime Matray e Alexia Walther ne hanno fatto uno spunto per il loro lungometraggio d’esordio, Bêtes Blondes, in concorso alla prima edizione del Mescalito Biopic Fest.
Partendo dal concetto di mente, e soprattutto memoria, come elemento centrale del sé, le due autrici passano a parlare di perdita nelle sue accezioni più ampie. In formato 4:3 da televisione d’antan, con una fotografia ed una messa in scena curatissime e raffinate che riportano alla mente certo cinema d’autore europeo degli anni Settanta, un nome per tutti Bernardo Bertolucci, le registe mescolano con maestria piano onirico e reale, dramma e commedia, in una chiave surreale che può forse lasciare disorientati all’inizio ma che finisce per catturare e coinvolgere lo spettatore fino alla fine. Attraverso l’occhio di una macchina da presa che mantiene sempre una distanza che sembra voler essere distacco rispetto ai personaggi, le autrici ci introducono ai due protagonisti, lo smemorato ex-attore Fabien, interpretato da un espressivo e bravissimo Thomas Scimeca, ed il frammentato Yoni, un Basile Meilleurat che regge bene la scena. Attraverso il loro incontro-scontro, prima per strada e poi ad un funerale, si dipanda questa storia terribile e buffa ad un tempo, nella quale il piano dell’assurdo, della finzione, del fantastico e del reale si mescolano continuamente fino a creare un piano della realtà unico, nella quale anche il tempo e lo spazio sembrano piegarsi, nulla sembra essere ciò che appare a prima vista. Tutto scorre, volti, parole, azioni, tutto passa e ricomincia sempre uguale a sé stesso, almeno per Fabien; che diventa simbolo e metafora di come siamo tutti poveri esseri sballottati nel gran corso della vita e per riuscire a sopravvivere, a volte ci attacchiamo a qualcosa, un ricordo, un oggetto, che diventano feticcio e centro di noi stessi. Ma così facendo perdiamo in realtà il nostro sé, smettiamo di guardare avanti, di vivere. La vita scorre e noi no. La perdita è inevitabile, fa parte della vita. Sembra banale ma è così, e noi non possiamo opporci, non possiamo evitarlo. Dobbiamo, è necessario, accettarlo, così come accettiamo il passato che non possiamo cambiare, il futuro che non possiamo prevedere ed il presente che possiamo vivere, non perdendo la memoria però, perché è essa che aiuta a definirci.
Luca Bovio