Apologia di remake
Lo sappiamo bene: viviamo in un’epoca dove il primato spetta all’immagine, al suo semplice aspetto spesso osservato in superficie e raramente guardato nella propria completezza. Alla velocità con la quale essa si propaga nel mondo di internet. Non è più tempo di storie. Scritte, narrate, lette da molti. Perciò, in un film, anche la sceneggiatura diventa mero pretesto per mostrare, tentando di abbacinare visivamente. Ed è esattamente questo che il Ben-Hur del kazako da tempo trapiantato a Hollywood Timur Bekmambetov tenta di fare, rileggendo un’epopea a carattere leggendario – peraltro già portata sul grande schermo in altre due occasioni in passato – attraverso un’ottica capace di risultare di facile digeribilità per una platea di ogni età. Non limitandosi però solo ad un presunto incremento della spettacolarità ma intervenendo anche su alcuni degli elementi cardini della trama.
Già tale intenzione aprirebbe il campo ad una serie infinita di discussioni, tra puristi che si ergono a difensori del passato cinematografico e realisti che vedono in questo un’occasione per far conoscere la Storia alle nuove generazioni. Materia buona per un saggio. Noi passiamo oltre, concentrandoci sulle questioni critiche che pone sul tappeto questo remake che non sarà certo l’ultimo ma che probabilmente va ad effettuare un significativo passo di non ritorno in materia.
Sepolta dalla polvere del passato la versione muta diretta nel lontanissimo 1925 da Fred Niblo, resta nella memoria cinefila il kolossal peplum del 1959 realizzato da William Wyler, giustamente considerato alla stregua di un grande classico. Partenza dunque a handicap per il Ben-Hur 2.1. costretto a confrontarsi implicitamente con una di quelle pellicole che, per maestosità sia formale che di contenuto, ha lasciato una traccia indelebile nella Storia della Settima Arte. Con benevolenza si possono accettare i cambiamenti al plot, evidentemente apportati per semplificare qualsiasi sottotesto in teoria più impegnativo, sia dal punto di vista socio-politico che religioso. Giuda Ben-Hur, ad esempio, è un ebreo all’acqua di rose, portato assai più alla diplomazia verso l’occupazione romana che alla spada. Infatti si sposa subito con Ester, la figlia del fido servitore, dimostrando autentico spirito democratico e predisposizione a crearsi una famiglia; poi non si “romanizza” nel corso del film – come invece accadeva nella versione di Wyler – dando vita a quel conflitto interiore capace di rendere ancor più appassionante la vicenda narrata. Mentre il fratellastro/antagonista Messala diventa uno spirito libero e avventuroso, romano per la burocrazia ma in fondo ebreo nell’anima. Comincia dunque ad affiorare il “peccato mortale” che affossa senza alibi alcuno la versione contemporanea di Ben-Hur: affrontare cioè l’aspetto ideologico di una vicenda epica di crudeltà e vendetta, con sullo sfondo il misticismo dell’avvento e la fine del Cristo, sotto una prospettiva cerchiobottista ed ecumenica, tra le righe squisitamente veicolatrice di un messaggio cattolico privo di qualsiasi sfumatura. Senza spoilerare nel dettaglio un finale che pare diretto da un Franco Zeffirelli in totale trance religiosa, questo remake riesce nell’impresa negativa di far retrocedere la figura del personaggio principale a santino monodimensionale, prontissimo – ovviamente in senso figurato – a raccogliere l’eredità simbolica (da ebreo!) del Cristo perito sulla croce. Un processo inverso, tanto per trovare un altro punto di riferimento cinematografico, a quello compiuto da Mel Gibson ne La passione di Cristo (2004). Lì un’opera pregna di livore e violenza che si faceva quasi vanto dell’intrinseca mancanza di spiritualità nel descrivere un Gesù votato al martirio in una dimensione splatter accerchiato dai nemici; qui, al contrario, un eccesso di buonismo di fondo che omologa tutto a tutti, in nome di un messaggio di fratellanza “cosmica” che lascia più sconcertati e basiti che concordi.
Passano quindi addirittura in secondo piano altri evidenti difetti che affliggono il film. Come i volenterosi interpreti che mancano del carisma necessario a dare spessore ai rispettivi ruoli; come la regia di Timur Bekmambetov, ormai da tempo ridotta a mero esibizionismo di computer graphic e una modalità tridimensionale risultante assolutamente non necessaria quando non addirittura fastidiosa. Inezie in confronto ad uno script – la cui stesura ha visto inopinatamente coinvolto anche John Ridley, premio Oscar per 12 anni schiavo – che mescola senza pudore alcuno avventura predigerita, scarti narrativi da soap opera nonché insopprimibile tentazione di impartire la classica, deleteria, lezione morale ai giovanissimi e non che guarderanno il film. Trasformando un drammone esistenziale dai contorni omerici in una, tanto decentrata quanto piatta, lezione di catechismo per palati assai poco fini.
Più che remake, questo Ben-Hur contemporaneo è lesa maestà nei confronti del Cinema con la maiuscola.
Daniele De Angelis