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Away

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VOTO: 8

Non ho bisogno di parole

Dopo l’inaugurazione con l’anteprima mondiale del cortometraggio di Cinzia Angelini dal titolo Mila, la grande animazione torna ad affacciarsi nel cartellone della 69esima edizione del Trento Film Festival con un altro gioiellino del genere in questione. Si tratta di Away, il lungometraggio firmato da Gints Zilbalodis che, dopo un lunghissimo tour nel circuito festivaliero e una serie di riconoscimenti, ha finalmente fatto tappa in Italia, con una première che anticipa l’uscita nelle sale nostrane grazie alla Drake Distribution.
In entrambi i casi, gli autori hanno deciso di fare a meno dei dialoghi, lasciando al solo potere comunicativo delle immagini il compito di narrare la storia, che per quanto riguarda l’opera prima del regista lettone si sviluppa sulla distanza di 75 minuti. Una distanza che tra l’altro Zilbalodis ha coraggiosamente deciso di percorrere in solitaria, a differenza della collega italiana che per dare vita ai 20 minuti del suo short si è affidata a un team internazionale di 350 volontari e artisti provenienti da più di 35 Paesi. L’idea che dietro al responsabile di Away non ci sia lo sforzo congiunto di una crew, bensì quello di un singolo che ha deciso di fare squadra a sé coprendo tutte le fasi della produzione e i ruoli necessari a portala a termine, compreso il montaggio e la composizione della colonna sonora, va sottolineato a gran voce e tenuto fortemente presente nel momento del giudizio finale. Un giudizio che per quanto ci riguarda, al netto di qualche incertezza qua e là nel design e digressione narrativa di troppo nella parte centrale, è più che positivo vista l’elevata qualità tecnica raggiunta e le folate di lirismo che la pellicola offre allo spettatore strada facendo.
Ma al di là della sua magia tecnica e della poesia che riesce a sprigionare, Away è di per sé un esempio coinvolgente di creazione di un universo immaginifico che sembra molto più vasto di quanto non sia effettivamente mostrato sullo schermo. Per costruirlo il pluripremiato cineasta lettore ci ha messo tre lunghi anni, partendo dal plot di un suo precedente cortometraggio battezzato Oasis (2017), qui rielaborato ampliandone gli orizzonti narrativi pur mantenendo intatto l’essenza della matrice originale. Ispirandosi in parti uguali alla realtà, al sogno e alle fantasie ad occhi aperti, ha dato forma e sostanza a un viaggio fisico e onirico dove queste tre dimensioni si fondono senza soluzioni di continuità, rendendo quasi impercettibile il passaggio da una all’altra. Qui si materializza l’odissea di un ragazzo che si sveglia su un’isola deserta dopo un misterioso atterraggio di fortuna. Su quell’isola però non è da solo, perché a inseguirlo senza sosta c’è uno spirito maligno, le cui reali intenzioni non sono chiaro. Nel corso di uno di questi inseguimenti si imbatte in una motocicletta, mezzo di trasporto sicuro per il ragazzo, che fa amicizia con un uccellino che si offre come guida. Partono così per la loro avventura, cercando di sfuggire allo spirito, per scoprire di più sul misterioso atterraggio e svelare la vera natura dell’isola.
In questo duro percorso di sopravvivenza c’è dunque un gigante non meglio identificato dal quale scappare, incontri da fare in un mondo tutto da esplorare e soprattutto c’è una montagna da scalare, una valanga di neve da evitare e un mistero da dipanare. Insomma, tutto quello che serve per catapultare personaggi e fruitori in un’avventura coinvolgente che non ha nulla da invidiare alle grandi produzioni d’oltreoceano. Non a caso è proprio oltreoceano che Zilbalodis è andato a rivolgere lo sguardo per alimentare il suo cinema, le sue storie e lo stile della sua animazione. Per Away, ma anche per i suoi precedenti impegni sulla breve distanza, il regista lettone ha guardato intensamente non agli Stati Uniti, ma al Sol Levante e alle creazioni del maestro Hayao Miyazaki, con un’estetica che ha enormi somiglianze con classici come Ponyo o Il mio vicino Totoro.
Il suo tuttavia non è un tentativo di emulazione di un qualcosa che non gli appartiene, ma la scelta di lasciarsi ispirare da un modello alto da personalizzare con invenzioni visive che sono farina del suo sacco. Ciò lo ha portato a mettere da parte il tradizionale stile di animazione disegnato a mano, molto utilizzato dalle sue parti e dalla prolifica scuola baltica, a favore di una CGI tridimensionale in cui gli anime si tuffano in una miriade di altre influenze della cultura pop. L’esito ovviamente non raggiunge le vette toccate dal guru nipponico, ma è comunque in grado di catapultare lo spettatore in uno road movie che sa come far vibrare le corde del cuore, tra musica avvolgente e panorami mozzafiato.

Francesco Del Grosso

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