Cicatrici nell’anima
In epoche più felici, anche a livello distributivo, avevamo imparato ad amarlo sul grande schermo, il cinema di Márta Mészáros. Prima con quella trilogia, a dir poco straordinaria, composta da Diario per i miei figli (1984, Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes), Diario per i miei amori (1987), Diario per mio padre e mia madre (1990). Altro passaggio fondamentale, dopo i tre Diari, era stato La settima stanza (1995), pellicola focalizzata sull’esemplare e indubbiamente sofferta biografia di Edith Stein, la grande filosofa che convertita al cattolicesimo aveva scelto la vita monastica e che, deportata dai nazisti per le proprie origini ebraiche, si spense poi ad Auschwitz nell’estate del 1942.
Negli ultimi anni, invece, i film dell’ormai quasi novantenne cineasta sono usciti dai radar della programmazione in sala. Davvero un peccato. E ulteriore dimostrazione del fatto che cinematografie come quella magiara o altre dell’Europa Orientale sono sempre meno seguite, dalla nostra sciatta e poco attenta distribuzione.
Quasi a compensare tale mancanza, specie ora che forzatamente si deve operare attraverso lo streaming, l’Accademia d’Ungheria in Roma ci aveva offerto a novembre la possibilità di recuperare l’ultimo film di Márta Mészáros di cui si ha notizia, Aurora Borealis – Northern Light (Aurora Borealis: Északi fény). Datato 2017, tale lungometraggio ci era finora sfuggito. Ed è stata una gioia potercisi infine confrontare, giacché vi si può riscontrare ancora un distillato dei temi e delle emozioni cui la regista ungherese appare maggiormente incline: il ricordo, la perdita, gli affetti sedimentati nella memoria, l’oppressione dei regimi totalitari, il confronto tra generazioni diverse, l’irriducibile ostinazione e il vitalismo residuo di chi è sopravvissuto ai più tragici eventi della Storia.
Quasi un film-testamento, insomma, nel suo fare da ponte tra vissuti così distanti tra loro e comunque accomunati, beffardamente, in virtù delle radici famigliari stesse, da pagine talmente oscure del Novecento: difatti al termine della difficoltosa e sofferta indagine tra i tanti segreti di famiglia, una classica donna in carriera residente a Vienna, Olga, riuscirà forse a capire veramente l’orgoglio e la fragile condizione esistenziale di sua madre Maria, da sempre restia a raccontare il proprio tormentato passato. L’elegante ed emotivamente straziante struttura a flashback di Aurora Borealis aiuterà così non soltanto la figlia, ma anche il pubblico, a capire il perché di tanta ritrosia. La chiave del rebus. Attraverso lettere riaffiorate all’improvviso, tracce di documenti perduti, intime confessioni estorte a fatica agli ultimi testimoni di quegli eventi, una Olga non più fredda e distaccata riuscirà piano piano a empatizzare con quella donna anziana, sua madre, cui la “cortina di ferro” e l’arroganza del gigante sovietico (un po’ come nei tre indimenticabili Diari, precedentemente citati) avevano brutalmente sottratto alcuni degli affetti più cari. Frammenti di una cultura politica repressiva e spietata. Storie di fughe rocambolesche e di un confine tra Ungheria e Austria sorvegliato a mano armata. L’appena imposto “socialismo reale”, quale carcere di massima sicurezza. Ma da quella prigione Maria era riuscita a fuggire, seppur sacrificando l’amore più grande della sua vita, abbattuto dai colpi di quelle guardie rosse tanto come le loro bandiere quanto come il sangue versato…
In rapida successione vividi ricordi e cartoline sbiadite di un tempo che fu. Giocando sul filo della memoria, caricando di aspettative ogni immagine, Márta Mészáros è riuscita a emozionarci ancora una volta. Speriamo sia così anche stasera, visto che la rassegna “Cinema Accademia d’Ungheria in Roma” prosegue sempre in streaming martedì 26 gennaio, con la proiezione di un altro, differente apologo sul sopravvivere ai traumi della guerra, sulla resistenza individuale ai sistemi più repressivi, sulla forza di sentimenti messi a dura prova dalla Storia: Those Who Remained (Akik maradtak, 2019) di Barnabás Tóth, film ambientato dopo la Seconda Guerra Mondiale a Budapest, raffigurata qui quale città in lenta ripresa tra le rovine, dove anche gli uomini devono iniziare una nuova vita; quelli che sono rimasti, che sono sopravvissuti e a cui non è rimasto niente se non la solitudine.
Stefano Coccia