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Body

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VOTO: 7

Siamo responsabili per la vita che portiamo in questo mondo

Dare la vita non è solo questione di potere, ma è anche responsabilità. La tracotanza di sostituirsi all’opera divina, farsi creatori e la conseguente punizione del peccato di superbia sono elementi centrali nella leggenda ebraica del Golem. Un mito parallelo nella Bibbia alla narrazione di Adamo ed Eva e che nel corso dei secoli affascinò molti artisti e letterati che ne fecero l’oggetto di un proprio lavoro. A questo elenco si aggiunge anche la giovane regista belgradese, ma residente a Berlino, Marijana Verhoef, in concorso al 32° Trieste Film Festival con il suo cortometraggio Body (titolo originale Leib).
Ambientato in una campagna tedesca imprecisata, l’opera vede come protagonisti una vedova che vive da sola in una fattoria e che porta in vita una creatura di forma umana (Dustin Schanz) per avere aiuto. Fin dai primissimi minuti, con un rituale di evocazione recitato su schermo nero, la figura del Golem ci si riaffaccia alla mente in compagnia del mostro di Frankenstein. Sì perché le figure delle due creature appaiono fuse in un unico rimando al tema della creazione della vita e delle responsabilità che essa comporta, responsabilità negate da chi creò il Golem e da Victor Frankestein. Non siamo padroni della vita che portiamo in questo mondo ma ne siamo responsabili. Siamo tenuti ad averne cura perché possa crescere e svilupparsi verso la luce anziché verso le tenebre. E questo è un film di luce e ombra. Nella accecante luce del giorno possono annidarsi ombre impenetrabili, come quelle di un’anima ferita e sola. La regia asciutta e rigorosa che mostra con ordine la quotidianità della donna e della creatura e, abilmente e con pochi tocchi, illustra l’evoluzione della creatura e il suo sviluppo verso un’interiorità compiutamente umana, qui il riferimento al mostro di Frankenstein, si unisce ad un tono secco nel montaggio e nella ripresa i quali portano ad intendere la pellicola più come una dissertazione filosofica che come un’opera artistica. C’è una forte razionalità tedesca nel modo della regista di affrontare il tema e la storia che ci racconta nel suo cortometraggio. Espone una teoria, la analizza e stila le conclusioni.
La creatura non è né buona né cattiva, non può ancora esserlo. Si tratta di un’anima giovane, che non conosce e non capisce il mondo. Ha bisogno di qualcuno che lo guidi, che lo corregga, per evitare che possa ferirsi e ferire, che si prenda cura di lui. Tuttavia la donna che lo ha evocato al mondo non sembra disponibile a farlo. Ha già una famiglia e non considera la creatura parte di essa.
Nel goffo gesto potenzialmente letale nel quale si cela una richiesta di affetto, non vede nulla che l’incomprensibile atto di un animale. E come un animale potenzialmente pericoloso tratta la creatura in cerca solo di un gesto gentile. Marijana Verhoef ribalta i miti ai quali si è ispirata non mettendo in scena una tragedia della superbia ma piuttosto la tragedia di un’anima nuova che chiede di essere amata.

Luca Bovio

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