Il rifugio
1941: Anna ha solo sei anni quando, durante lo sterminio nazista degli Ebrei, l’intera sua famiglia viene uccisa. La bambina riesce miracolosamente a sopravvivere grazie alla mamma, che le fa coraggiosamente scudo con il suo corpo. Anna si nasconde così nel camino dell’ufficio del comandante nazista, senza cibo né acqua, sola e impaurita. Inizia una lotta per la vita che dura oltre due anni, una battaglia contro il grande, terribile mondo degli adulti. La storia di una guerra vinta da una ragazzina ebrea.
Leggendo il titolo e la sinossi dell’ultima fatica dietro la macchina da presa di Aleksej Fedorčenko battezzata Anna’s War, presentata nel concorso della sezione “Panorama Internazionale” della nona edizione del Bif&st a qualche mese di distanza dalla prima apparizione pubblica all’International Film Festival Rotterdam 2018, la mente non può non tornare di default alla drammatica e tremenda odissea vissuta da Anna Frank, più volte approdata in passato sul grande schermo con una serie di pellicole più o meno note, a cominciare da Il diario di Anna Frank (1959) di George Stevens (vincitrice di tre Premi Oscar: migliore attrice non protagonista, migliore fotografia b/n, migliore scenografia b/n). Ma chi conosce bene le vicende legate alla scrittrice ebrea tedesca, morta nel campo di concentramento di Bergen-Belsen e divenuta un simbolo della Shoah per il suo celebre diario scritto nel periodo in cui con la sua famiglia si nascondevano dai nazisti, avrà sicuramente capito che non è di lei che il film del cineasta russo narra la storia.
Quella al centro dell’opera di Fedorčenko, infatti, al di là di qualche analogia e del nome di battesimo della protagonista, è la storia altrettanto drammatica e vera, di una bambina di origini ebree capace di sconfiggere, a suo modo, il “mostro” nazista. Una vicenda, la sua, scoperta per caso dal regista navigando su internet e che non ha trovato spazio – quando lo avrebbe meritato – sulle pagine della grande Storia. A farlo ci ha pensato per fortuna il regista russo, tornato dietro la macchina da presa dopo il potentissimo Angels of Revolution, con un film che ne ripercorre la quotidiana e incredibile lotta per la sopravvivenza in un ambiente ostile. Per farlo, Fedorčenko costruisce quello che a tutti gli effetti assume i caratteri distintivi di un kammerspiel vecchio stampo, che costringe lo spettatore di turno a misurarsi, come la sua protagonista, con un’unità spazio-temporale di un luogo/non-luogo sospeso cronologicamente in un limbo dove giorno e notte si susseguono sino a scomparire. Dopo il feroce incipit in esterno che vede Anna riemergere da una fossa comune, preceduto da un lungo nero che lascia sonoramente intuire a un cruento massacro, l’autore catapulta la bambina e noi al seguito in una dimensione scatologica claustrale e asfissiante, destinata a persistere sino all’ultimo fotogramma utile. Ciò appiccica letteralmente addosso al fruitore di turno un mix di ansia e tensione latente difficile da gettarsi alle spalle, anche dopo lo scorrere dei titoli di coda.
Lo sguardo di Fedorčenko e la sua m.d.p. (attaccata al personaggio e sempre alla sua altezza) diventano una cosa sola con gli occhi di Anna. Occhi che a sua volta si tramutano nei nostri, con le fessure e le feritoie del rifugio sul camino che appaiono come finestre nascoste ma spalancate sull’orrore di una guerra lasciata volutamente fuori campo, ma comunque onnipresente. Siamo nel novembre del 1941, nei territori sovietici occupati dai nazisti. Queste sono le uniche connotazioni temporali e geografiche che ci è dato sapere, perché dalla didascalia in poi si susseguiranno sullo schermo una successione di highlights di lunghezza variabile che in micro e macro sequenze rievocheranno gli eventi salienti della vicenda. Il tutto con l’impronta stilistica e drammaturgica ormai riconoscibile di un regista che sa come lasciare sempre una traccia indelebile nella retina e nella mente dello spettatore, con film come First on the Moon, il già citato Angels of Revolution, passando per Railway, Silent Souls a Spose celesti dei mari della pianura. Anche in Anna’s War il rigore formale di una cifra autoriale forte non ostacola il materializzarsi sullo schermo di soluzioni visive di grande impatto (vedi il piano sequenza iniziale con la cinepresa a piombo che scorre sulle superfici corporee di corpi privi di vita che si arresta sul primo piano di Anna mentre riemerge tra i cadaveri), così come il realismo senza filtri lascia spazio anche a incubi ad occhi aperti (vedi il banchetto).
Francesco Del Grosso