Un’utopia olandese
Un cinema di rimandi, intrecci, sottotrame che si inseguono senza soluzione di continuità. Scatole cinesi in sequenza da aprire con somma sorpresa. Sempre accompagnati da cast clamorosi, con interpreti disposti a “giocare” alla reale illusione della Settima Arte assieme al regista ed agli spettatori.
Se dovessimo dare un identità fisica ad un modus operandi del genere non ci sarebbero soverchi dubbi nel trovare il nome: quello di David O’Russell. Anche questa sua ultima fatica, dal titolo Amsterdam, non sfugge a tali principi. Siamo nel 1933 e gli Stati Uniti ribollono per la crisi economica. Un medico, tale Burt Berendsen (Christian Bale, spassoso) e un avvocato, Harold Woodman (un raziocinante John David Washington), amici e reduci dal Primo Conflitto Mondiale, vengono coinvolti, loro malgrado, in due casi di omicidio avvenuti a distanza ravvicinata. Padre e figlia muoiono infatti in circostanze a dir poco misteriose. I due ritroveranno una bellissima donna, Valerie Voze (Margot Robbie, al top della bravura e del fascino), già conosciuta sotto altro nome durante la guerra, con la quale proveranno a risolvere i vari enigmi che incontreranno sulla loro strada.
Il pastiche cinematografico, autentico genere a se stante, può attirare in egual misura fanatici sostenitori o accaniti detrattori. Resta però un’arte di difficile cesello. E sotto questo punto di vista David O’Russell non può che essere insignito del grado di maestro. Fino all’ultima inquadratura, chi guarda Amsterdam – presentato in anteprima italiana alla Festa del Cinema di Roma 2022, sezione Grand Public – vaga nell’incertezza se definire il film una commedia dark, un dramma filosofico condito d’ironia oppure una parodia girata sul filo dell’equilibrio del classico noir. Il suggerimento, come spesso accade in questi casi, è quello di ignorare qualsiasi tentazione di classificazione per abbandonarsi senza remore al fluviale flusso narrativo. Un flusso che ondeggia tra situazioni buffe, lunghi dialoghi enigmatici e improvvisi acuti di violenza destinati a condurci al termine di una notte buia che si avvicina a grandi passi. Perché la follia bellica, tutt’altro che esauritasi nel conflitto 1915-1918, sta riprendendo vigore, sotto forma di follia nazista (in Europa) e complottismi vari (negli Stati Uniti) atti a sovvertire l’ordine democratico. In mezzo c’è Amsterdam. Luogo utopico dove il terzetto composto da Burt, Harold e Valerie si rifugia per un dolce vivere dopo le immani ferite, non solamente fisiche, subite nella Prima Guerra Mondiale.
Sin troppo raffinato e articolato per poter sperare anche nel successo al botteghino, Amsterdam è un concentrato dei molti pregi e dei pochi difetti del cinema griffato O’Russell. Qualche sospetto di manierismo – accusa rivolta anche ad alcune opere dei fratelli Coen, alle quali questo Amsterdam potrebbe essere per certi versi accostato – viene spazzato via dalla sublime intelligenza dell’insieme, da un valzer attoriale che ricorda il miglior Robert Altman, pur agendo su differenti registri. Sotto la patina di purissimo intrattenimento, il lungometraggio di David O’Russell mette in scena l’angoscia delle persone comuni, tutte estremamente consapevoli che il destino di tutti passerà da altre mani, molto più alto delle loro. Era il 1933. Ma ricorda in maniera sospetta una realtà che andata succedutasi nel corso degli ultimi (e penultimi) decenni. Fino ad arrivare ad oggi. Nonché una finestra dal vetro sudicio con vista precaria sul domani, c’è da temere.
Daniele De Angelis