La magione maledetta colpisce ancora!
Il calcolo delle probabilità non giocava, ancor prima della visione, a favore di questo Amityville – Il risveglio. Per il semplice motivo che la Blumhouse – casa di produzione specializzata in film dell’orrore, per quei pochi che ancora non lo sapessero – dell’ineffabile e infaticabile Jason Blum, in questa stessa stagione cinematografica aveva già azzeccato un film con i controfiocchi, cioè Scappa – Get Out di Jordan Peele. Con una media approssimativa di un paio di lungometraggi decenti ogni dieci realizzati, il lettore capirà i motivi del nostro strisciante pessimismo. La curiosità maggiore proveniva dal constatare come se la sarebbe cavata il buon Franck Khalfoun – regista parigino appartenente alla scuderia capitanata da Alexandre Aja, lanciatasi baldanzosamente alla conquista di Hollywood – a quattro anni di distanza dall’ottima e abbastanza imprevedibile riuscita del remake di Maniac, appropriato aggiornamento del celebre cult datato 1980 di William Lustig. E qualche fuoco d’artificio, Khalfoun – nella circostanza anche sceneggiatore – prova anche a spararlo, soprattutto nella prima parte di questa rivisitazione della celebre saga. Si tenta, innanzitutto, di inserire la vicenda in un contesto di pieno realismo, agganciando l’usuale prologo con immagini fintamente d’epoca alla vera vicenda della famiglia De Feo accaduta nel 1974, che giocò un ruolo decisivo nell’ispirazione dell’intera serie di film su Amityville. Non pago di ciò il regista del discreto -2 Livello del terrore (2007) si gioca pure la carta del racconto meta-cinematografico, inserendo nella diegesi il capostipite Amityville Horror del 1979, con il film di Stuart Rosenberg per l’occasione tirato in ballo dai soliti adolescenti cinefili tanto cari alla saga di Scream. Il problema è che queste tracce di realismo tese in teoria ad aumentare la dose di angoscia nello spettatore, pur interessanti, vengono lasciate colpevolmente evaporare da una trama che si rifugia man mano che avanza nei consueti stereotipi degli horror contemporanei, riservati in modo pressoché esclusivo ad un pubblico decisamente sotto la maggiore età.
Assistiamo dunque all’ingresso di una nuova famiglia, stavolta capitanata dalla mater familias Jennifer Jason Leigh, nella famigerata casa dalla fama piuttosto equivoca. L’emaciata e sofferente scream-queen Bella Thorne, tesa a proteggere la sorellina, sente da subito odore di bruciato; a maggior ragione quando il fratello James, in coma vegetativo senza speranza a seguito di un incidente, inizia a dare misteriosi segni di risveglio. Guarigione miracolosa oppure zampino di una presenza malefica? Risposta ovvia, che lascia numerosi rimpianti per ciò che Amityville – Il risveglio sarebbe potuto diventare se si fosse deciso di girare un lungometraggio pienamente “adulto”. Ad esempio un maggior approfondimento sulle dinamiche di una famiglia ferita a morte dal Destino. O anche il rapporto semi-morboso tra una madre inquietante poiché ossessiva ai limiti dello psicotico verso la sopravvivenza del figliolo infermo. Oppure la conflittualità madre-figlia nel prendere in mano una situazione in rapida degenerazione causa presenza di essere ultra-terreno. Tutti aspetti che rimangono nello stato di latenza in un lungometraggio il cui unico obiettivo appare quello di legare in concatenazione narrativa sequenze che sembrano prese di peso da altri film, l’evergreen Poltergeist (1982) in primis, ma anche il Nightmare primigenio di Wes Craven per il percorso di crescita traumatico al quale è costretta l’adolescente protagonista. Oltre, naturalmente, agli altri capitoli cinematografici appartenenti al ciclo Amityville.
Insomma il discorso, al tirare delle somme, è sempre il solito: ai giovani spettatori di oggi del cinema di genere made in U.S.A. è severamente proibito, tranne qualche rara eccezione, azionare le cellule grigie tese al ragionamento. Assistere ad un lungometraggio come Amityville – Il risveglio rappresenta un’esperienza simile al mangiare cibo precotto; sazia i palati meno raffinati, lasciando però difficoltà di digestione come effetto collaterale. E stavolta la sentenza di “colpevolezza” andrebbe distribuita in parti eguali, oltre che tra il regista e Blum, pure tra i fratelli Weinstein, anche loro produttivamente complici della rivitalizzazione (fallita) di una saga sfiatata della quale non si sentiva, almeno in questi termini, affatto la mancanza.
Daniele De Angelis