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A Witness Out of the Blue

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VOTO: 6

John Woo… senza John Woo

Gli elementi che vanno a strutturare la pellicola A Witness Out of the Blue (2019) di Chi-Keung Fung sono: una storia poliziesca, sprazzi d’ironia, scene d’azione, il labile confine tra bene e male e una vicenda che tocca il romantico. Tutto questo ricorda qualcosa? Sì, moltissimo, perché sono tutti quegli ingredienti che John Woo utilizzava, miscelandoli assieme, in quelle sue opere action che nella seconda metà degli anni Ottanta sovvertirono i codici del genere, creando una vasta sequela di prodotti che hanno poi tentato di perseguire quell’exploit. Per inciso, risultati a volte riusciti degnamente, tipo alcuni omaggi di Quentin Tarantino, mentre altre volte scopiazzature senza ingegno e finezza. Per tanto A Witness Out of the Blue, recuperato e inserito nel programma del Festival #Cineuropa34, in quale categoria si posiziona? La pellicola si situa nel gruppo delle opere salvabili, di quelle che hanno saputo inserirsi abbastanza bene nell’onda lunga solcata da John Woo, ma il risultato finale è molto al limite del giudizio positivo.

Il regista Chi-Keung Fung non è un nome ancora molto noto fuori dai confini hongkonghesi, se non si è dei cinefili incalliti propensi verso quelle produzioni orientali. Come regista ha al suo attivo cinque pellicole: un cortometraggio, quattro commedie e questo poliziesco. Ha più congrui titoli come sceneggiatore (ben 18 collaborazioni), e non ha disdegnato nemmeno di fare qualche comparsata come attore (6 ruoli), tra cui un’apparizione nel medesimo A Witness Out of the Blue. Se dal suo passato si vuole citare un lavoro famoso, si può scorgere il suo nome tra gli sceneggiatori di Shaolin Soccer (2001) di Stephen Chow, che mixava le arti marziali con il calcio, ricoprendo il tutto di comicità demenziale. Tenendo in conto questi dati appena scritti, si può comprendere un pochino meglio A Witness Out of the Blue che, oltre a recuperare gli stilemi di John Woo (ad esclusione delle colombe svolazzanti), crea un quasi compendio di quanto fino a quel momento ha fatto Chi-Keung Fung nella sua carriera. Il manierismo della storia – scritta dal medesimo regista – è ravvivato da un ottimo ritmo d’azione, con buoni stacchi di montaggio e qualche buona scena d’effetto, per tanto da questo punto di vista lo spettatore, anche non avvezzo a tale genere (orientale) potrà divertirsi, ma quello che non funziona in questo marchingegno, o per meglio dire non è ben oliato, è lo svolgimento della trama gialla, che tiene forzatamente all’oscuro lo spettatore fino alla fine. In poche parole è una storia arzigogolata che poi “esplode” con la sorpresa finale su chi è stato il vero colpevole dell’omicidio iniziale. Non ci sono buoni limpidi o cattivi sporchi, perché tutti i protagonisti hanno i loro inciuci con la parte avversa (ad esempio il giovane e tonto poliziotto ha debiti con un delinquente). E anche il risoluto e temibile criminale Wang (Louis Koo, affascinante stella del cinema di Hong Kong) dimostra di non essere un cinico individuo, perché prima la giovane proprietaria della lavanderia rimasta schiacciata sotto un mobile dopo un attacco dinamitardo, e poi protegge la sua affittuaria Ding dalle minacce di un bruto. Tra loro due, Wang e Ding, s’instaura anche un quasi rapporto d’amore, perché il criminale vede in questa giovane e carina donna un’ipotesi di riscatto della propria vita. In questo caso da mettere in evidenza che Ding è fortemente miope, quindi non può vedere completamente la figura di Wang, e questo elemento quasi ricorda la cecità della cantante di The Killer (1989) di John Woo. Mentre gli altri aspetti poco funzionali sono l’ironia, che dovrebbe rendere più vivace la storia, ma non sempre è funzionale, oppure i presentimenti di morte di Wang (rappresentati dalle formiche che ricoprono gli oggetti) sono un simbolismo troppo marchiato.

Roberto Baldassarre

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