Amore ospedaliero
Genere: strappalacrime adolescenziale. Premesse: tutt’altro che positive. In cabina di regia un ex attore di soap-opera dure e pure tipo Beautiful e Febbre d’amore rispondente al nome di Justin Baldoni, per l’occasione al suo primo lungometraggio di finzione. Poi, ovviamente, a far da incomoda protagonista, la malattia. L’infida fibrosi cistica capace di perseguire persone sin dalla più tenera età e pesare come una spada di Damocle sulle teste dei vari personaggi mostrati. Quindi l’ospedale, dove è ambientata la maggior parte della durata di A un metro da te (una misura leggermente maggiore nella versione originale: Five Feet Apart), con il titolo del film a delineare l’impossibilità di un contatto diretto tra malati pena la trasmissione di forme batteriche differenti pur nell’ambito della medesima patologia. Sussistevano, insomma, tutte le carte in regola per il solito melodramma ad uso e consumo del teenager medio, con alte possibilità di caduta nello stereotipo più becero e conseguente comparsa di una, più o meno salutare per lo spettatore adulto, comicità involontaria.
Mai, invece, mettere in anticipo il carro davanti ai tradizionali buoi. Perché, per almeno tre quarti della sua lunghezza complessiva, A un metro da te sceglie clamorosamente la strada dell’understatement. Un approfondimento non banale delle psicologie ferite di ragazzi attorno ai diciotto anni costretti ad una maturità precoce dal loro stato di salute. Pensieri, paure e speranze in libera uscita descritte in maniera magari abbastanza superficiale ma priva di quel surplus di “pesantezza” tipica di produzioni di questo tipo. Certo, la cornice ospedaliera, se non fosse per una severa infermiera sin troppo professionale e premurosa, sembrerebbe più simile alla residenza a cinque stelle di un villaggio vacanze dove si organizzano party e intrattenimenti assortiti; oppure la figura retorica (definiamola così..) di un personaggio secondario che entra in scena, per caratteristiche personali, con la metaforica scritta in fronte di un triste destino segnato. Però è innegabile che la storia d’amore tra i due protagonisti Stella e Will, entrambi affetti da differenti tipologie della malattia in questione, possieda una certa gradualità in grado di generare empatia in chi guarda, al pari della frustrazione condivisa che impedisce alla coppia qualsiasi forma di contatto fisico, mentre quello visivo e verbale si mantiene entro una determinata distanza quantificata, nel film, da una stecca usata per il biliardo. Una sineddoche funzionante, che esplicita la fame dei corpi lasciando l’erotismo di un rapporto non consumato ad un efficace livello trascendentale di completezza intellettuale. E sin qui tutto bene. Tuttavia le regole non scritte del genere più biecamente commerciale si riaffacciano di prepotenza nell’ultima parte, a tramortire sia gli interpreti (bravissima la Haley Lu Richardson già ammirata nel recente 17 anni (e come uscirne vivi), mentre il belloccio Cole Sprouse tiene un po’ più a stento il passo) che gli spettatori, travolti da una slavina di eventi tanto inverosimili quanto intrisi di furba melassa. Operazione inutile riportarli in questa sede, anche per non sciupare l’effetto sorpresa nei confronti di quei pochi che non se li sarebbero aspettati.
Pregi e difetti, al tirar delle somme, finiscono dunque con l’equivalersi in A un metro da te. E per un prodotto nato con un pedigree perlomeno controverso, ci pare già risultato confortante.
Daniele De Angelis