Ricordo di un’estate
Cosa c’è di più bello dei ricordi di gioventù in cui si era spensierati insieme alla propria compagnia di amici? Eppure, molte volte, vi sono fattori esterni che gettano un’ombra di ciò che è e di ciò che è stato, facendo sì che anche i momenti più belli siano pervasi da un velo di tristezza e di inquietudine. Questo, ad esempio, è ciò che viene messo in scena nel lungometraggio A estación violenta, per la regia della giovane Anxos Fazans, presentato in anteprima italiana alla cinquantacinquesima Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, all’interno della sezione riguardante le registe spagnole contemporanee.
In principio, vi sono cinque amici. Tutti giovanissimi, tutti meravigliosamente spensierati. Eppure, v’è una persona, molto più grande di loro e apparentemente esterna al gruppo, che, spacciando droghe pericolose, mette continuamente a repentaglio le loro stesse esistenze. Passano otto anni. Due dei ragazzi che avevamo conosciuto non compaiono più. Uno di loro, Manuel, lavora precariamente come giornalista e conduttore radiofonico e, tornato dopo un lungo periodo nella sua città natale, incontra nuovamente l’affascinante Claudia e il ragazzo di lei, anche loro, un tempo, parte della compagnia. Eppure, nessuno di loro è, ormai, più lo stesso.
In questo suo lungometraggio, Anxos Fazans mira a raccontare proprio l’innocenza perduta e la libertà distrutta a causa delle dipendenze. A tal fine, ella ha deciso di tralasciare completamente dettagli precisi circa le sorti dei ragazzi (in particolare, seppure si può intuire che sia accaduto qualcosa di brutto, nulla si sa dei due giovani scomparsi), circa il loro destino, i loro sogni e le loro aspirazioni. In poche parole, tutto viene affidato alle immagini stesse, le quali, forti di una regia che, malgrado una scarsa esperienza, ben sa creare atmosfere felici e spensierate, accostandole sapientemente a momenti carichi di angoscia. Stesso discorso vale per i corpi dei protagonisti, trattati dalla macchina da presa al pari di vere e proprie opere d’arte, nella loro innocenza e nella loro continua ricerca di serenità e amore.
Eppure, malgrado questi interessanti spunti di base, tutto risulta pericolosamente campato in aria, dimostrando una chiara confusione di intenti da parte della regista, quasi come se la stessa non avesse idea di dove voler andare a parare. Nel tentativo di realizzare un lungometraggio in cui è un andamento prettamente contemplativo a fare da padrone di casa, questi sono errori in cui si può facilmente cadere. A poco servono, dunque, le riuscite scene in riva al mare o riguardanti i momenti di relax dei giovani protagonisti. A poco serve la loro discreta caratterizzazione. Tali ricercatezze, senza un qualcosa di sostanzioso e concreto alla base (estremamente necessario in un lungometraggio del genere) risultano quasi come un puro esercizio di stile. Una dimostrazione (a sé stessa?) che la giovane regista è perfettamente in grado di creare atmosfere evocative e a tratti poetiche. Peccato, però, che l’intero discorso sia tristemente destinato a restare fine a sé stesso.
Marina Pavido