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A Classic Horror Story

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VOTO: 8

Il classico film dell’orrore. O forse no?

Pochi secondi. Tanti, a un primo sguardo, basterebbero per acclimatarsi in A Classic Horror Story, opera seconda (o terza, se consideriamo anche la collaborazione con Vito Palumbo per Ice Scream) del regista horror nostrano Roberto De Feo, qui coadiuvato nel lavoro da Paolo Strippoli, prodotta e distribuita da Netflix a partire dal 14 luglio. Un prologo volutamente classico per il genere, con in sottofondo, però, la voce di Gino Paoli che canta “Il cielo in una stanza”, il tono caldo, rilassato e innamorato che stride con quanto vediamo sullo schermo non solo creando l’ovvio effetto straniante ma introducendo, inoltre, l’ambientazione italiana della vicenda.
Certo è che lo straniamento dura anch’esso pochi istanti. Il tempo per ritrovare alcuni capisaldi del marchio horror, quali la compagnia di viaggiatori sul camper e gli intrichi di una foresta, e lo spettatore è di nuovo instradato sulla via del film di genere, solido o meno che sia. E, prima di proseguire su tutt’altri binari (chi scrive come il film in questione), va detta una cosa: molto probabilmente A Classic Horror Story avrebbe potuto funzionare benissimo anche come film di genere trasportato in una realtà traslata, camuffata (neanche troppo) e resa esotica, altra e adimensionale com’è quella calabrese scelta da De Feo e dai suoi collaboratori. È una valutazione che andava espressa ora e lasciata qui dove sta: perché non è questa la destinazione finale scelta dagli autori per il loro lavoro.
Il giovane Fabrizio, studente di cinema, raduna tramite carpooling sul camper della madre un gruppetto eterogeneo di persone. Troviamo una giovane coppia di europei trasferitisi da ormai da molto tempo negli Stati Uniti, coppia formata da Mark, un inglese spaccone e infantile, e da Sofia, ucraina dedita a un’attività in proprio di produzione di bigiotteria. Riccardo è invece un medico dal passato inizialmente poco chiaro, mentre Elisa, sui cui da subito si concentra il montaggio indicandola a caratteri cubitali come la principale protagonista del film, è una studentessa della Bocconi che sta per abortire dopo aver concepito un figlio non voluto (non voluto soprattutto dalla madre della giovane). Ognuno di loro, per un motivo o per l’altro, deve percorrere la strada che li separa da un punto non meglio specificato della Calabria. Neanche a dirlo, il viaggio prenderà presto una piega inaspettata per i partecipanti, in seguito ad un incidente che li catapulterà quasi per incanto in una realtà di sangue e sofferenze indicibili.
È a dir poco citazionistico A Classic Horros Story. Vano divertissement sarebbe quello di scovare inquadratura per inquadratura i film cui i registi fanno riferimento (si possono fare alcuni titoli, La casa di Raimi su tutti, citato anche da uno dei protagonisti, e poi The Texas Chainsaw Massacre, Quella casa nel bosco, Midsommar e chi più ne ha più ne metta). Quello che conta davvero è comprendere come gli autori scopiazzino a destra e manca senza soluzione di continuità proprio per prenderci/prendersi in giro, per arrivare a quella svolta narrativa solo in parte pronosticata che è l’autentica, nonché unica, chiave di lettura del film, con la contemplazione di prodotti come gli snuff movies di cui si è a lungo discusso nella storia del cinema, anche di quello italiano. Dall’illusione del film di genere di ottima fattura si va verso la ricerca di un’originalità che non sconvolge, ma piace, intriga, insomma in qualche modo soddisfa quella voglia di vedere qualcosa di nuovo.
E se l’interpretazione a tratti meravigliosamente sboccata del personaggio di Fabrizio da parte di Francesco Russo fa molto, portando sullo schermo questo bamboccione nerd pericolosissimo, seppur indirettamente, cresciuto in un contesto ultra criminale, il ruolo di Elisa si fa portatore di un’interessante storia di formazione di una figura femminile, capace di passare dai sembianti della bocconiana un po’ snob e perennemente sotto l’ala al tempo stessa protettiva e minacciosa della famiglia ai connotati della vendicatrice che prende il controllo delle redini del gioco al massacro (avete pensato alla Florence Pugh di Aster? Con ogni probabilità avete pensato bene, basti pensare alla scena del pranzo).
Il finale di A Classic Horror Story meriterebbe più di qualche riga, con quella spiaggia sempiterna che ritorna negli ultimi istanti come in molte opere nostrane, ma che questa volta sa di luogo sacro violato, non più incontaminato, odora di quotidianità intaccata. Soprattutto sembra fare, complici i bagnanti silenti ed impersonali, meri strumenti di ripresa con i loro smartphone (occhi privi di palpebre), da terribile eco alle parole con cui Fabrizio tenta di giustificarsi (o meglio accentua il suo delirio) davanti ad Elisa, quasi quest’ultimo fosse ancora vivo e ripetesse ecco vedete avevo ragione in merito al voyeurismo sadico che permea la nostra società, in un discorso complessivo in merito al concetto di “occhio che uccide” che non smarrisce mai la sua attualità, anche se qui solo abbozzato.
Detto ciò, in un film che pur non essendo particolarmente pretenzioso sembra aprire qualche spiraglio per una new wave del cinema horror in Italia, una cosa è certa: ascoltare Sergio Endrigo che canta non sarà più la stessa cosa. Colpa di Netflix. O, per meglio dire, di Bloodfix.

Marco Michielis

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