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52Hz, I Love You

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VOTO: 4.5

Niente ombrelli, ma rose rosse

Ormai è ufficiale: questa storia di La La Land ci è ufficialmente sfuggita di mano. Uno non può fare un (bell’)omaggio al musical degli anni d’oro – così come alla Settima Arte – che subito si ritrova circondato da malelingue pronte ad etichettare il prodotto in questione come qualcosa di pretenzioso e sopravvalutato, oltre che da una serie di cloni mal riusciti dello stesso. Nel caso di 52Hz, I Love You – musical taiwanese firmato Wei Te-sheng e presentato in anteprima alla diciannovesima edizione del Far East Film Festival – ci troviamo, tristemente, di fronte ad uno di questi cloni. Malgrado il tono fresco e genuino di tutto il lungometraggio, infatti, non passa molto tempo prima che ci rendiamo conto che, qui, sotto sotto di genuinità ce n’è ben poca. Già l’incipit del prodotto in sé, ad esempio, ci ricorda qualcosa di ormai molto, ma molto familiare.
Taipei. Mattino. Ora di punta. La strada è gremita di automobili ferme per il troppo traffico. Una ragazza improvvisamente esce dall’auto, prende un monopattino e, intonando le note di una canzoncina orecchiabile, prosegue dritta per la strada. È il giorno di san Valentino e – tra amori non corrisposti, storie che durano da tanto tempo e che sono ormai al capolinea e coppie gay che sognano di sposarsi e di avere una famiglia tutta loro – tutti sono, chi più, chi meno, in vena di fare festa.
L’inizio, ovviamente, è quello del fortunato lungometraggio di Damien Chazelle, dunque. Il resto è un mix tra l’intramontabile Singining in the Rain di Stanley Donen, il bellissimo Les parapluies di Cherbourg di Jacques Demy e lo stesso La La Land. Salvo che, al contrario dei lavori sopra menzionati, quello che questo ultimo lavoro di Wei Te-sheng vuole essere è un inno all’amore universale, senza se e senza ma, comprensivo di tutti i possibili clichés in cui si può incappare affrontando un tema abusato come questo.
Niente ombrelli ma rose rosse, stavolta. Niente Catherine Deneuve – con tanto di madre dispotica al seguito – ma una giovane fioraia innamorata dell’amore con una zia che vuol essere cinica ma che, in fondo, non sembra proprio riuscirci. Fatta eccezione per le scene in interni, le strade di Taipei – ricostruite rigorosamente in studio, come da tradizione – stanno tanto a ricordarci i musical della Hollywood degli anni d’oro (oltre, ovviamente allo stesso Les parapliues de Cherbourg), quei musical gloriosi resi ottimamente sul grande schermo dallo stesso Stanley Donen, da Vincent Minnelli e compagnia bella. Ce li ricorda, o almeno vorrebbe ricordarceli. Vorrebbe ma non ci riesce. Se non altro i lavori sopra citati si sono distinti a loro tempo (anche) per delle ottime coreografie, cosa che qui pare sia stata quasi saltata a pie’ pari. Probabilmente anche involontariamente o, meglio ancora, inconsapevolmente.
L’amore qui raccontato è banale, estremamente idealizzato, non fiabesco ma irreale per il suo essere così costruito. Talmente finto nella sua rappresentazione da rendere il lungometraggio quasi un puro divertissement, un omaggio all’Omaggio al Cinema (l’Omaggio per eccellenza di cui si è tanto parlato ultimamente), privo di uno sguardo soggettivo dell’autore, così come di ogni qualsivoglia personale peculiarità. Un film apparentemente senza pretesa alcuna. Se non fosse per il fatto che l’autore stesso lo ha definito scherzando (ma non troppo) addirittura più bello di La La Land.

Marina Pavido

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