Sì, sì e ancora sì
Si è da poco conclusa la prima edizione del Fish & Chips Festival, rassegna torinese di cinema erotico, che si è rivelata essere una piacevole sorpresa. Il film vincitore di questa edizione d’esordio è il documentario spagnolo Yes, We Fuck, scritto e diretto da Raúl de la Morena e Antonio Centeno, quest’ultimo attivista per i diritti dei diversamente abili. La vittoria del doc, che è parte di un progetto più ampio, può essere ritenuta doverosa, in un Paese come il nostro nel quale la sessualità di chi ha un corpo differente è argomento tabù, guardata con diffidenza e, nei casi peggiori, con disgusto e pietà.
I due filmmakers mettono in scena un documento prezioso, evitando le facili trappole del moralismo e della commiserazione, mostrandoci sei storie che possono apparire fuori dal comune solo in un contesto fatto di pregiudizi e discriminazione, in realtà in tutto e per tutto normali; non vi sono filtri o remore, il sesso è mostrato in modo esplicito ma al tempo stesso colmo di sensibilità, al fine di evidenziarne l’assoluta normalità, spiazzando quegli spettatori dalla mentalità retrograda e che rifiutano l’idea che anche chi è portatore di un handicap ha, ovviamente, una sessualità da vivere e di cui gioire. Il progetto che comprende questo lavoro è, come già si accennava, di ampio respiro, e può essere seguito sul sito www.yeswefuck.org: si invitano i visitatori a raccontare la propria storia e a mandare filmati, in modo da far crescere sempre di più la portata dell’iniziativa e riuscire nell’intento di sensibilizzare il maggior numero di persone possibile verso un argomento di cui pare nessuno voglia mai parlare.
Un corpo “disabile” è spesso visto come da accudire o curare, mai come oggetto di desiderio o portatore di bellezza; tutto ciò, ha spesso condizionato i diretti interessati, portandoli a pensare di non avere diritto al piacere fisico e a una vita sessuale completa e appagante. Secondo Centeno e de la Morena, invece, la sessualità dovrebbe essere centrale nell’assistenza sociale alla disabilità, in quanto elemento portante nello sviluppo caratteriale e dei rapporti interpersonali. Nel doc viene presentata una figura finora inedita, quella dell’ assistente sessuale, che accompagna la persona nella scoperta del proprio corpo e di quello altrui: in Spagna, vi sono già i primi gruppi in cui si pratica, con ottimi risultati, il “sesso assistito”. In questo tipo di associazioni, gli operatori guidano i partecipanti verso il piacere fisico, con sensibilità e senza barriere o moralismi: ci si libera dei propri abiti e ci si tocca, sia da soli che a vicenda, spesso sorprendendo positivamente chi vi prende parte, facendolo sentire, com’è giusto che sia, in tutto e per tutto normale. Vediamo, tra gli altri, una donna che non è mai riuscita a toccarsi poiché le proprie mani non glielo permettono, un’altra che invece gode di una sessualità completa con il suo compagno, storie differenti che spesso hanno un background molto simile, fatto di difficoltà e pregiudizi da abbattere. In tutto questo, le assistenti sessuali tracciano il percorso con gioia, piacere e un’empatia non comune. Negli incontri colloquiali di gruppo, è interessante notare come le donne siano maggiormente smaliziate e più attive rispetto agli uomini: la maggioranza, infatti, ha avuto esperienze con fidanzati o amici, mentre i partecipanti di sesso maschile spesso hanno fatto ricorso a prostitute poiché rifiutati (o convinti di esserlo) dalle altre donne. Ciò che colpisce maggiormente, tuttavia, è l’atteggiamento dei genitori dei portatori di disabilità: spesso sono proprio loro i primi a non accettare che i propri figli possano avere una vita sessuale, spinti dalla paura e da un eccesso d’istinto protettivo. Sconvolge sentire una madre dichiarare di aver fatto sterilizzare la figlia poiché la giovane avrebbe desiderato una famiglia e dei bambini e lei “non poteva permettere che venissero al mondo delle creature deformi”: testimonianza agghiacciante di retaggi mentali che rimandano, inevitabilmente, a quelle idee orribili e folli di supremazia razziale in nome della perfezione fisica.
Il primo premio a Yes, We Fuck rappresenta una vittoria non solo giusta ma necessaria, e non resta che augurarsi che l’egregio lavoro dei due filmmakers possa avere riscontro anche da noi, abbattendo quel tabù che pare non voler scomparire.
Chiara Pani