Il tempo dei cani lupo
Le cronache belliche costituiscono da sempre un’inesauribile fonte di orrori. Tragedie degne in tutto e per tutto di essere documentate, raccontate ed analizzate. In Blood on the Snow: The Carpathian Winter War of 1915, saggio che purtroppo non è mai stato tradotto in italiano, lo storico militare Graydon A. Tunstall (già a capo, presso la prestigiosa Accademia di West Point, del dipartimento di Storia) si soffermava a lungo sugli aspetti più allucinanti e cruenti che caratterizzarono, durante la Prima Guerra Mondiale, lo scontro tra le armate dell’Impero Austro-Ungarico e quelle dell’Impero Russo lungo il fronte della Galizia. Specialmente nel così rigido inverno del 1915. Allorché dalle loro postazioni difensive gli stremati superstiti di qualche assalto inorridivano, di notte, ascoltando le urla strazianti dei feriti, rimasti mezzi sepolti nella neve e in balia di quei branchi di lupi che, a poche centinaia di metri, ne facevano scempio.
Concediamoci pure un piccolo balzo temporale, da una mattanza ad un’altra, dalle trincee della Grande Guerra agli scenari non meno sanguinosi della Seconda Guerra Mondiale. E dall’istintiva ferocia dei lupi di cui sopra all’analoga aggressività, aizzata però dagli stessi uomini in divisa, dei cani lupo posti a guardia dei campi di concentramento nazisti. Questa è una delle intuizioni più felici, a nostro avviso, dell’eccellente film polacco da noi visionato durante il 39° Fantafestival, Werewolf (Wilkołak, 2018) di Adrian Panek.
Presentato in collaborazione con l’Istituto Polacco di Roma, quello che finora è risultato di gran lunga il miglior film della selezione ufficiale del festival parte da una suggestione a dir poco forte, cruda: alcuni ragazzini denutriti, sopravvissuti per miracolo alla barbarie di un lager smobilitato in fretta e furia con l’arrivo in zona dell’Armata Rossa (alquanto potente, a livello cinematografico, la resa delle ultime ore di terrore nel campo), trovano provvisoriamente ospitalità in una villa semiabbandonata, che verrà presto cinta d’assedio da una muta di cani inferociti e più affamati di loro. Sono, ironia della sorte, quegli stessi cani lupo addestrati dalle sentinelle tedesche ormai allo sbando, dopo l’arrivo dei russi.
La reale natura degli assalitori, intelligentemente, non viene però svelata subito. Il cadavere della donna che li aveva accolti nel piccolo maniero viene trovato nel bosco in condizioni orribili. Poi sarà il turno di due rozzi militari sovietici di passaggio. E uno dei bimbi col braccio tatuato avrà ancora il tempo, in una battuta a dir poco emblematica, di ricordare agli altri la diceria in base alla quale le SS sarebbero in grado di trasformarsi in lupi mannari.
Ecco, il regista polacco è abile proprio in questo, nel creare una mitopoiesi per cui viene prima accarezzata l’idea dell’irrompere in scena di un elemento orrorifico classico, magari fantastico, per poi riportare tutto a una diversa “banalità del Male”, a un orrore ben più concreto, reale, storicizzato. Homo homini lupus. Del resto, oltre alla furia dei cani che cercano in tutti i modi di entrare nella villa (non male, anche qui, la resa cinematografica del crescendo di tensione, basato sia sulla difesa degli spazi vitali da parte degli assediati, a corto di cibo e di acqua, che sulle quasi estenuanti dilatazioni temporali), particolarmente interessante è il definirsi dei rapporti interpersonali tra i sopravvissuti, rapporti talora assai tesi e non immuni da qualche pulsione preadolescenziale dagli esiti potenzialmente deleteri. Forte anche di un’intensa e valida direzione dei giovanissimi attori, Panek sa ricreare così atmosfere che ricordano un po’ “Il signore delle mosche” di William Golding, vibrante archetipo letterario cui la situazione di quei ragazzi separati dal resto della comunità umana non perché confinati in un’isola, ma perché soggetti a una forma di isolamento determinata dalla guerra e quindi non meno alienante, in parte rimanda.
Stefano Coccia