Istinto di sopravvivenza in bianco e nero
Sabato 2 aprile, in concorso all’On the Road Film Festival ottava edizione, è stato proiettato il distopico mediometraggio della coreana Misong Jin, altra perla inclusa nel fiammeggiante ritorno del Cine Detour all’autarchica confezione di rassegne non banali, tese alla ricerca di nuovi linguaggi e alla valorizzazione del miglior cinema indipendente italiano e non. Nel videomessaggio inviato agli spettatori della kermesse capitolina la giovane regista sudcoreana ha citato tra i propri punti di riferimento alcuni Maestri del cinema italiano, da De Sica a Rossellini. Trattasi di modelli senz’altro impegnativi. Ma siamo rimasti piacevolmente sorpresi per la cura formale riversata in quest’opera minimalista, quasi ieratica, che tra i propri pregi non ha soltanto l’eleganza di un bianco e nero ben contrastato, ma anche una messa in quadro sapiente e spesso rivelatrice.
Apocalisse (solo) in apparenza morbida. Senza gli strepiti e gli eccessi di violenza che caratterizzano, a volte, omologhi prodotti cinematografici di matrice americana. Con dietro, invece, la volontà di caratterizzare attraverso una forma essenziale, sobria, minimale per quanto fortemente ansiogena, quel declino lancinante e improvviso della civiltà umana che può a tratti ricordare opere come Il tempo dei lupi di Haneke: simile qui il proposito di calare l’imponderabile nella quotidianità stravolta dei protagonisti.
In Wasteland, per certi versi un kammerspiel all’aria aperta, la struttura drammaturgica è ridotta all’osso e abbiamo in scena un nucleo assai ristretto di personaggi. Vi è una coppia, lei incinta, che dopo una catastrofe senza possibilità di appello va attraversando la penisola coreana, pressoché deserta, alla ricerca di un posto sicuro. Si dice infatti che al sud vi sia ancora possibilità di salvezza. Oltre alla devastazione del territorio altri esseri umani si pongono come ostacoli. E infatti l’unico personaggio che assieme a loro vedremo in azione, tipico cane sciolto, è il torvo individuo che si aggira in quelle stesse terre con una benda in testa e imbracciando un fucile, sicché la sua stessa presenza non sembra promettere nulla di buono.
La maturità registica di Misong Jin è tale da far dialogare questi pochi elementi come in una partitura perfettamente calcolata, ma ancora in grado di suscitare emozione. Camera fissa mai leziosa, un opprimente senso di abbandono, dialoghi scheletrici e comunque significativi, concorrono in egual misura a creare un mood la cui angosciosa solennità non va a discapito delle lievi increspature sentimentali o di quelle aspettative, che hanno sempre nel fuoricampo un fulcro imprescindibile. Sia quale potenziale fonte di salvezza (l’attesa “beckettiana” degli elicotteri) sia come ulteriore, potenziale minaccia (gli spari in lontananza). Notte e giorno. Edifici “sgarrupati” e spazi aperti da attraversare. Qualunque sia lo scenario che fa da sfondo allo scarno racconto, abbia esso una collocazione naturale come la foresta o sia di derivazione umana, si ha spesso l’impressione che i protagonisti risultino compressi, schiacciati all’interno dell’inquadratura, come sovrastati dagli ambienti con cui devono di volta in volta confrontarsi. Tant’è che un proficuo straniamento si somma alle altre impressioni offerte dalla loro perigliosa avventura e da quello stato d’animo perennemente inquieto.
Stefano Coccia