Bulli bulli, chi li ha fatti li trastulli
Al Far East Film Festival 2020 è stato Better Days di Derek Tsang, un melodramma sul bullismo “made in China”, a trionfare. Tema decisamente scottante e attuale, se si considera che oltre al vincitore del festival anche il secondo classificato, Victim(s) di Layla Zhuqing Ji, prende di petto tale argomento. Ma con un approccio narrativo vicino solo in parte a quello del lungometraggio cinese. E a conti fatti è stato proprio il mood del film realizzato in Malesia, così livido, disilluso, traboccante di rabbia ma al contempo disincantato, verso gli esiti della ribellione posta in atto dal giovane protagonista, quello che ci ha maggiormente coinvolto a livello emotivo. Sia per l’abile costruzione narrativa che per le forti implicazioni sociali, pedagogiche, di cui la regista si è saputa fare carico.
Già nel titolo internazionale del film, Victim(s), ristagna un’ambivalenza che rimanda direttamente al difficile processo di demarcazione tra aguzzini e vittime, tra colpe manifeste e un’innocenza che non è mai assol(u)ta, perché le pressioni sociali fanno sì che anche chi subisce una clamorosa ingiustizia possa reagire in maniera inconsulta o magari vile, omertosa, dopo aver assaporato sulla propria pelle l’indifferenza della collettività.
C’è un altro retroscena importante, che può spiegarci il coraggio di fondo e le ragioni della maggior coerenza narrativa riscontrabili proprio in Victim(s): anche la regista Layla Zhuqing Ji è cinese, ma ha preferito girare il suo lungometraggio d’esordio (tecnicamente e stilisticamente curatissimo, il che rende l’operazione ancor più pregevole) in un paese come la Malesia, dove pure vi sono attriti tra etnie diverse che qualche tensione sociale possono sempre innescarla, pur di non sottostare a quei vincoli censori e propagandistici della Repubblica Popolare Cinese che Better Days, ad esempio, sottotraccia rivela.
Un po’ come nel giapponese Confessions, capolavoro di Tetsuya Nakashima datato 2010, il sistema scolastico è una fucina di mostri, un ricettacolo di violenze gratuite e altrettanto cruente vendette. Sempre come in quel sulfureo lungometraggio, caratterizzato invero da un’impronta molto più estetizzante, anche in Victim(s) l’aura tragica è presente sin dalle prime scene, ma sarà una lunga ed articolata detection a far luce sui fatti terribili annunciati all’inizio del film.
La situazione presentataci nelle battute iniziali, difatti, sembrerebbe inchiodare l’introverso Chen a colpe gravissime: ovvero l’efferata uccisione di Gangzi e l’accoltellamento di altri due compagni di classe, in una notte di pioggia, evento che le tante malelingue della scuola caricheranno da subito di altri significati, cercandone il movente nella sordida (e soltanto supposta) rivalità per una ragazza o addirittura nell’influenza negativa esercitata dai videogames.
Nulla di più lontano dal vero, come scopriranno gli spettatori al termine di un doloroso viaggio nel passato recente di quegli adolescenti, destinato peraltro a modificare radicalmente la percezione delle rispettive colpe; e di conseguenza le reali motivazioni di Chen, spinto a reagire con tanta ferocia da una insopportabile catena di soprusi, subiti tanto da lui che dalla nuova studentessa, messa in mezzo dai bulli (maschi ma anche femmine) di turno. Davvero encomiabile, in questo cupo iter narrativo, l’accortezza con cui vengono chiamate in causa le violenze domestiche, l’omofobia strisciante e la conturbante, frenetica attività dei social media, capace di annichilire (o all’occorrenza redimere) i più fragili tramite nuove e sempre più perverse cacce alle streghe.
Stefano Coccia