Frammenti di memoria
Tra i film che alla terza edizione del Biopic Fest hanno ottenuto qualche riconoscimento ufficiale, quello realizzato da Bianca Stigter può vantare qualcosa di più, rispetto alla pur apprezzabile vena creativa degli altri titoli premiati. Possiede insomma i contorni della RIVELAZIONE. Rivelazione sulla vita, sulla memoria, sul cinema stesso. Poiché dal quasi miracoloso ritrovamento dei circa tre minuti di girato risalente al periodo tra le due guerre mondiali, materiale destinato peraltro a corrompersi irrimediabilmente di lì a poco, se non opportunamente restaurato, ha preso vita una storia che ha tutto il carattere dell’eccezionalità. Tanto sul piano strettamente linguistico (e teorico), che per il pathos autentico delle vite impresse sulla pellicola.
Parliamo infatti di riprese a colori e in bianco e nero effettuate nel 1938 in una cittadina polacca, dove la comunità ebraica all’epoca era fiorente, ma sarà poi spazzata via quasi completamente sotto l’occupazione nazista. Con le modalità atroci che conosciamo fin troppo bene. Ma la “magia”, se così possiamo definirla, di quelle scene appartenenti a un mondo perduto, non risiede soltanto nella pur lodevole opera di documentazione compiuta quasi inconsapevolmente dal cineamatore dell’epoca, ma nel successivo e recentissimo lavoro effettuato su tali immagini per tessere nuovamente, con tutte le difficoltà del caso, i fili della memoria.
Quelli che all’inizio di Three minutes: a Lengthening scorrono sullo schermo sono i fotogrammi, riproposti tutti d’un fiato e senza commento sonoro, del filmino amatoriale che un certo David Kurtz, origini polacche ma emigrato da bambino in America, girò durante il lungo viaggio in Europa intrapreso coi parenti più stretti e con pochi altri amici, anche per ritrovare i luoghi in cui aveva vissuto la propria famiglia; luoghi che in seguito avrebbero subito violentemente l’impatto della Seconda Guerra Mondiale.
Con una di quelle cineprese della Kodak divenute da poco popolari presso le famiglie benestanti degli States, il buon David riuscì a strappare all’oblio alcune scene di vita quotidiana (laddove però l’irruzione di un simile strumento, ancora poco conosciuto negli ambienti rurali, aveva scatenato l’euforia e le reazioni esagerate degli abitanti, soprattutto quelli più giovani) proprio nel villaggio di cui era originario uno dei genitori. Senza che di questo episodio si parlasse più per anni, anzi, per decenni, solo nel 2008 l’ormai famosa bobina è stata ritrovata, in condizioni di deterioramento già piuttosto avanzate, dal nipote Glenn; il quale l’ha subito messa a disposizione di laboratori e fondazioni, non solo per restaurare e salvare attraverso la digitalizzazione il girato, ma anche anche per avviare una ricerca sull’identità delle persone coinvolte. I “sommersi e i salvati” di quella oscura pagina di Storia.
La detection che ne è derivata, riportata sullo schermo dalla voce narrante di Helena Bonham Carter (vicina al progetto così come Steve McQueen, che l’ha co-prodotto) e dalle testimonianze di alcuni sopravvissuti all’Olocausto, è realmente qualcosa di prezioso, di emozionante, di unico. Riesce a tenere alta la tensione pure intorno a quelle poche scene ripetute all’infinito, sezionate, interpretate, congelate in qualche fermo-immagine da cui cominciano a emergere volti, ricordi, frammenti di quotidianità altrimenti perduti. La memoria di quello stato di quiete apparente e degli atti terribili che seguiranno si cristallizza, svelando allo spettatore alcune delle potenzialità più profonde e rivelatrici del cinematografo stesso. Ci troviamo pertanto a concordare ancora una volta con quella giuria del Biopic Fest 2022 (di cui del resto ha fatto parte anche il sottoscritto) che ha voluto premiare Three minutes: a Lengthening di Bianca Stingter quale Miglior Documentario in concorso, “Per la straordinaria commistione di valori umanistici e ricerca formale. Siamo dalle parti del miracolo. L’eccezionale ritrovamento di un filmato amatoriale in 16 mm diviene infatti, da un lato, testimonianza vibrante ed emotivamente intensa della vita in un villaggio polacco alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, laddove la fiorente comunità ebraica verrà a breve spazzata via dalle intemperie della Storia. Al senso di tragedia incombente si aggiunge però una ‘detection’ sui frammenti di pellicola ritrovati, uno studio certosino sulle singole inquadrature, da cui emerge progressivamente e con forza uno struggente apologo sul potere del cinema di fermare, scolpire il Tempo.”
Stefano Coccia