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The White Girl

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VOTO: 7.5

Candide apparizioni notturne

La Ragazza Fantasma (o la White Girl del titolo originale) è fin dalla nascita allergica alla luce del sole. La Ragazza Fantasma viene presa in giro dai coetanei, che sembrano giudicare ogni cosa dalla semplice apparenza, ed ha un unico amico, il giovanissimo Ho Zai, probabilmente troppo giovane per comprendere i suoi problemi. Non ha mai conosciuto sua madre, la Ragazza Fantasma. Suo padre, con il quale vive e che ha sempre cercato di difenderla dal mondo esterno, le ha detto che la donna è morta subito dopo averla data alla luce. La Ragazza Fantasma non ha un nome, ma viene menzionata da chiunque la conosca come la ragazza che non esce mai di casa. In realtà, la nostra Ragazza Fantasma di casa esce eccome. Solo di notte, però, quando non può essere colpita dalla luce del sole. È in queste occasioni, che fa la conoscenza di Sakamoto, anch’egli emarginato dal villaggio, che è solito proiettare filmati sulle pareti di un rudere nel quale ha trovato rifugio e che pare l’unica persona in grado di capirla davvero. Trascorrendo del tempo insieme, i due avranno modo di crescere e la Ragazza Fantasma finalmente scoprirà importanti verità riguardanti la sua vita ed il suo passato. Una storia, questa, pregna di un forte lirismo, che, grazie alla sospensione della realtà, ci racconta due solitudini, due mondi quasi surreali, ma entrambi simbolo di qualcosa che sta svanendo, e dell’importanza del guardare e del guardarsi dall’interno, con anche una forte componente metacinematografica. È questa la storia messa in scena nel pregiato The White Girl, presentato in Concorso alla 35° edizione del Torino Film Festival e diretto dalla produttrice hongkonghese Jenny Suen (qui alla sua opera prima da regista), insieme al veterano Christopher Doyle.
Curato nella regia – con raffinati giochi di specchi (memorabile, a tal proposito, la scena in cui la protagonista si guarda allo specchio e, in contemporanea osserva il riflesso del ritratto di sua madre), sapienti inquadrature che stanno a mostrarci i protagonisti come spiati attraverso finestre o da dietro angoli – e, forse, ancor di più nella fotografia, con copioso uso di colori freddi, quasi virati al bianco, proprio per restare in linea con la protagonista stessa, questo lavoro di Suen e Doyle colpisce soprattutto per la delicatezza nel mettere in scena una storia universale e senza tempo, che guarda con riverenza al passato e si fa contemplatrice del bello in ogni sua forma: dai pregiati gioielli creati mediante le perle che il giovane Ho Zai trova nelle ostriche da lui stesso pescate, fino, addirittura, al cinema stesso, grazie ai già menzionati momenti di particolare impatto emotivo in cui vediamo Sakamoto proiettare immagini in movimento sulla parete.
Una confezione semplice e, allo stesso tempo, ricercata, questa di The White Girl. I registi, dal canto loro, non mirano a mettere in scena qualcosa di epocale o a tutti i costi innovativo, ma, mantenendo un profilo relativamente basso, riescono a dar vita a qualcosa di più che apprezzabile, dalla messa in scena tipicamente orientale per stile e tematiche e che, all’interno di un concorso rivelatosi in linea di massima piuttosto tiepidino, riesce a distinguersi per onestà e chiarezza di intenti, oltre che per una riuscita complessivamente buona. Dal canto suo, lo stesso personaggio della Ragazza Fantasma ha tutte le carte in regola per entrare ufficialmente a far parte dell’immaginario collettivo. Ma, si sa, ora come ora è troppo presto per parlare. Ai posteri l’ardua sentenza.

Marina Pavido

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