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The Normal Heart

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VOTO: 7,5

L’amore ai tempi delll’HIV

Nel 1985, quando sui palcoscenici off-Broadway andò in scena per la prima volta “The Normal Heart”, il suo autore, Larry Kramer, era mosso da un’urgenza straordinaria: raccontare per la prima volta in un testo letterario la tragedia dell’Aids, l’epidemia che nel giro di pochi anni aveva quasi cancellato una generazione di uomini gay (ma non solo), ricordando i propri lutti personali così come i controversi rapporti con la comunità lgbt (che arrivò a disconoscerlo come portavoce in reazione ai suoi modi fin troppo polemici). Un’opera che nasceva con l’intento di “fotografare” un momento tragico che purtroppo è perdurato nel tempo, un istant play che negli anni è diventato quasi un classico. Ce ne sono voluti comunque trenta a “The Normal Heart”  per arrivare sullo schermo, decisamente tanti considerato il suo valore; sarebbe ingiusto dare tutta la colpa alla comunque lunga battaglia fra lo stesso Kramer e Barbra Streisand, che ne aveva acquistato i diritti, intenzionata a dirigere e interpretare un adattamento che però non convinceva l’autore (che non è, come già detto, una persona facile). Probabilmente è stato il mostrare la malattia più temuta e pericolosa della nostra epoca a spaventare eventuali produttori, e non sono bastati i successi negli anni di molte pellicole a tematica gay a fare cambiare loro opinione. Quando nel 2011 “The Normal Heart” è tornato sulle scene newyorkesi (e con un successo culminato nella vittoria di diversi Tony Award), stavolta proprio quelle di Broadway, evidentemente qualcosa si è smosso e i tempi devono essere (finalmente) sembrati maturi per portarlo sullo schermo, piccolo però. Infatti, nonostante il coinvolgimento della Plan B di Brad Pitt e Dede Gardner, è stata la HBO a realizzare l’impresa , proseguendo una tradizione che negli anni l’ha vista seguire progetti come “Angels in America” di Mike Nichols (dall’altro grande testo teatrale che raccontava la peste del 2000) e Behind the Candelabra di Soderbergh, tutte storie che avrebbero funzionato alla grande anche al cinema (e per Behind the Candelabra tentativi in tal senso sono pure stati fatti) se solo avessero trovato produttori più coraggiosi (sembrano davvero così lontani i tempi di Philadelphia e Che mi dici di Willy?). Dispiace soprattutto perché, all’indomani del successo (con tanto di Oscar) di Dallas Buyers Club (che raccontava una vicenda simile, sebbene ambientata nell’America di provincia, e non a caso anche quella sceneggiatura ha impiegato anni prima di trovare la via del set) si può immaginare che “un posto al sole” nelle sale cinematografiche The Normal Heart avrebbe chiaramente potuto trovarlo e magari figurare benone durante la stagione dei premi (si consolerà sicuramente coi Premi Emmy a fine estate).
Durante l’estate del 1981 il giornalista, scrittore, attivista newyorkese Ned Weeks (alter ego nel caso non fosse chiaro dello stesso Kramer) comincia a interessarsi ad una serie di decessi nella comunità gay. Molti uomini cadono vittime in poco tempo di una rara forma di cancro che sembra colpire soltanto gli omosessuali. Consigliato dalla dottoressa Emma Brockner, una donna forte da tempo costretta su una sedia a rotelle a causa della poliomelite, Ned cerca di sensibilizzare l’opinione pubblica a riguardo ma i suoi sforzi vengono frustrati sia dall’indifferenza delle istituzioni che non hanno nessun interesse a scendere in prima linea (il polemico Kramer spiegava tale atteggiamento col fatto che molti personaggi importanti dell’epoca, compreso lo stesso sindaco della Grande Mela, Ed Koch, fossero degli omosessuali in the closet e quindi vedessero come fumo negli occhi un certo attivismo troppo “aggressivo”) sia dalla mancata “collaborazione” di molti uomini gay che non ne volevano sapere di seguire uno stile di vita più “temperato” o comunque prendere delle precauzioni (atteggiamento duro a passare se si considera che negli anni i contagiati da HIV sono solo aumentati), convinti che tale stile di vita fosse parte della loro identità. Il protagonista con alcuni amici fonda la “Gay Men’s Health Crisis”, associazione no-profit volta a raccogliere fondi per aiutare la ricerca contro la nuova malattia, ma ne sarà espulso per  il suo temperamento aggressivo e poco diplomatico. Purtroppo non è tutto: Felix Turner, il compagno di Ned, un affascinante e brillante redattore del New York Times, scopre di essere ammalato e lui non potrà fare altro che stargli vicino fino alla fine.
Ryan Murphy, autore di serie televisive di culto come “Glee”, “Nip/Tuck”, “Popular” e “American Horror Story”,  ha avuto l’onere e l’onore di curare questo adattamento. Regista di un paio di pellicole non memorabili, Murphy non si segnala per avere una mano particolarmente sottile ma del resto neanche il materiale che ha a disposizione lo è. Inoltre il testo è talmente forte e pieno di momenti toccanti che in effetti è difficile restare indifferenti. Come regista forse non sarà Mike Nichols o Soderbergh ma affronta la storia in maniera rispettosa (la sceneggiatura è firmata dallo stesso Kramer ma è facile pensare che i cambiamenti apportati per la versione televisiva siano farina del sacco di Murphy), senza annacquarne le potenzialità (il matrimonio gay fra Ned e Felix sul letto di morte è uno dei momenti più toccanti che si siano visti in tv recentemente). Tra le critiche che gli sono state mosse una è particolarmente ingiusta: avere optato per l’utilizzo di scene in esterni, rompendo quella dimensione claustrofobica così efficace in teatro. Purtroppo, però, se avesse rispettato tale struttura il risultato sarebbe sembrato quello di un “teatro filmato” e quindi ancor meno soddisfacente.
Ovviamente ad un risultato così positivo hanno contribuito in maniera determinante gli attori. Mark Ruffalo nei panni di Ned Weeks si conferma uno degli interpreti più interessanti del cinema americano; dovendo interpretare un personaggio sopra le righe come Kramer ha un po’ perso quella naturalezza che finora è stata il suo pregio maggiore ma il carisma e la simpatia sono rimasti. A suo fianco attori solidi come Joe Mantello (Weeks nel revival di Broadway e molto efficace durante un monologo in cui si dispera al pensiero che ci sia qualcosa di “poco chiaro” nella nascita del virus), Jim Parsons (anche lui nel cast del revival e all’altezza del suo grande momento: un’orazione funebre in ricordo di una delle tantissime vittime) e Alfred Molina (nei panni del fratello del protagonista, col quale naturalmente Ned ha un rapporto burrascoso, ruolo per cui era stato annunciato Alec Baldwin). Anche il canadese Taylor Kitsch, volto della serie tv “Friday Night Lights”, che a Hollywood hanno provato a lanciare con veicoli alquanto discutibili, se la cava bene nel ruolo di Bruce Niles, il presidente dell’associazione visto come un’alternativa tranquillizzante al rissoso Weeks, anche se qualcuno ha rimpianto l’assenza di Lee Pace che aveva interpretato tra gli applausi la parte sulle scene (in diversi hanno maliziosamente affermato che Murphy non abbia voluto Pace in polemica col fatto che l’attore sia egli stesso in the closet, a differenza dei molti membri dichiaratamente omosessuali del cast, e pur apprezzando la presa di posizione del regista, pensando che lo stesso Niles è un personaggio che vive in maniera difficile il suo esporsi, forse Pace gli avrebbe portato un’ulteriore verità). Alla “star” Julia Roberts (aveva già lavorato con Murphy in Mangia, Prega, Ama) l’unico ruolo femminile consistente, quello della dottoressa Brockner che si diceva facesse gola alla Streisand (la diretta interessata ha, se non proprio smentito, ridimensionato, ma la cosa è credibile), e lo interpreta in maniera molto efficace sia nei momenti di esplosione (la scena in cui si rivolge ad una commissione medica che si rifiuta di finanziare le sue ricerche) sia nei semitoni, dimostrando che la ritrovata forma ammirata in “August: Osage County” (altra trasposizione da uno spettacolo teatrale) non è stata un’eccezione.
Ma la scelta vincente del casting è stata quella di assegnare il ruolo di Felix a Matt Bomer. Molto più bello di John Benjamin Hickey che aveva vinto il Tony proprio grazie a questo ruolo, il protagonista di “White Collar” porta la sua immagine tutta salute ed eleganza e a poco a poco lascia che il degenerare della malattia la deturpi fino alle estreme conseguenze. Il dolore e lo strazio di Ned nei confronti del suo compagno diventano così quelli dello spettatore. Una performance toccante ed efficacissima che l’attore modula senza strafare. Un simile meccanismo lo ritroviamo anche con le presenze di Jonathan Groff (molto bravo nella serie, sempre HBO, “Looking”), che incarna la “prima” vittima della malattia, e Finn Whittrock (avrà un ruolo importante in Unbroken film che Angelina Jolie ha dedicato all’eroe di guerra italo-americano Louis Zamperini) un modello il cui cadavere riceve un trattamento incredibilmente irrispettoso; ma indubbiamente è grazie a Bomer che il film raggiunge il suo picco emotivo.
The Normal Heart testimonia una pagina di storia tragica e nera con la quale non è facile riconciliarsi, per tal motivo è un film da raccomandare, sul piccolo come sul grande schermo.

Mirko Salvini

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