Musica e/è vita, Pol Pot e/è morte
I documentari selezionati, da qualche anno a questa parte, tendono a figurare tra le visioni più esaltanti del festival friulano. E anche nel corso di questo 18° Far East Film Festival se ne sono già visti almeno un paio, capaci di attrarre come un magnete la nostra curiosità e generare di conseguenza forti emozioni. Uno di questi, forse il migliore, è The Lovers and the Despot di Ross Adam e Robert Cannan: ad esservi ricostruita, con tanto di pittoreschi frammenti del cinema di propaganda nordcoreano, è la rocambolesca, drammatica vicenda cui andarono incontro il cineasta Shin sang-ok e l’attrice Choi Eun-hee, coppia in crisi formata da artisti che all’epoca erano alquanto popolari in Corea del Sud, attirati entrambi con l’inganno a Hong Kong e fatti poi rapire dal lunatico dittatore Kim Jong-il, intenzionato a sua volta a sfruttarne il talento per risollevare le sorti cinematografiche del regime di Pyongyang. Ma a Udine nei giorni a seguire c’è stata un’altra proiezione che ha acceso il nostro interesse: quella di The Cambodian Space Project – Not Easy Rock’n’Roll, documentario capace di coniugare l’iconografia pop con una delle pagine più dolorose del Novecento.
Dopo il cinema elevatissimo del film-maker sopravvissuto al genocidio Rithy Panh, dopo lo splendido The Last Reel della cineasta cambogiana Sotho Kulikar (il suo è un lungometraggio di finzione presentato e poi premiato sempre a Udine, un anno fa, in cui già uscivano fuori le inaudite sofferenze subite dagli artisti cinematografici durante quel fosco periodo), continuano a essere realizzati prodotti che direttamente o anche marginalmente richiamano in causa quell’immane tragedia. Tra le opere cinematografiche che vi si riferiscono, trasversalmente ma con un impatto emotivo forte, deciso, vi è anche questo documentario.
Diretto da Marc Eberle, tedesco che ha vissuto a lungo nel sud-est asiatico, The Cambodian Space Project – Not Easy Rock’n’Roll ha innanzitutto il merito di mettere in primo piano le ragioni della vita, ponendo l’attenzione sul tumultuoso confronto tra culture diverse compiutosi attraverso l’incontro, in un bar di Phnom Penh, tra l’eccentrico musicista australiano Julien Poulson e una cantante locale che fino ad allora aveva sprecato il proprio talento animando un karaoke, la bella Srey Thy. Da questo fortuito incontro sono nati una passione immediata, un amore sempre più travolgente e un matrimonio. Ma non solo. È nato anche un comune progetto artistico, capace di fondere insieme il linguaggio ultra-pop dei video, l’eredità della musica tradizionale cambogiana e le sperimentazioni della scena rock underground, in quel mix incandescente da cui si sprigiona anche una critica serrata e proposta in chiave dichiaratamente progressista alle tante problematiche sociali ancora aperte, nella piccola nazione asiatica, specie quelle relative al ruolo della donna.
Arrivati a questo punto, però, The Cambodian Space Project – Not Easy Rock’n’Roll diviene pure un viaggio-denuncia nel passato recente della Cambogia, attraverso il quale si scoprono prima le colorite biografie di quei personaggi (tra cui lo stesso sovrano, il controverso re Sihanouk, animato da una forte passione per il cinema e le danze) che nella golden age degli anni ’60 avevano vivacizzato il panorama culturale del paese con le proprie canzoni, coi film, con la creazione di nuovi balli e di altre mode innovative, finanche trasgressive per l’epoca, lanciate dapprima nel clima elettrico della capitale. Il passo successivo sarà prendere coscienza del fatto che molti di quegli artisti, diciamo pure nove su dieci, durante il tetro dominio di Pol Pot e dei suoi fanatici Khmer Rossi sono stati deportati assieme a gran parte della popolazione, per essere poi sottoposti a un regime di vita disumano nelle campagne e lì orrendamente trucidati. Uno dei tanti pregi di The Cambodian Space Project – Not Easy Rock’n’Roll è appunto questo, saper esporre in parallelo le ragioni della vita, modellate dalla musica, dall’arte e dalla creatività, e quelle di una distorsione ideologica generatrice di morte.
Stefano Coccia