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The Accountant

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VOTO: 5

La resa dei conti

La prima volta non si scorda mai, la seconda si. È il caso di Gavin O’Connor, che torna (non fisicamente) alla Festa del Cinema di Roma a otto anni di distanza dalla premiere di Pride and Glory con The Accountant, presentato nella Selezione Ufficiale dell’11esima edizione della kermesse capitolina a una manciata di settimane dall’uscita nelle sale nostrane con Warner Bros. Pictures.
Il film ci porta al seguito di Christian Wolff, un autentico genio della matematica, più a proprio agio con i numeri che con le persone. Sotto copertura, in una piccola città, lavora come contabile freelance per alcune delle organizzazioni criminali più pericolose al mondo. Con la Treasury Department’s Crime Enforcement Division, gestita da Ray King che inizia a stargli alle costole, Christian inizia a lavorare per un cliente pulito: una società di robotica all’avanguardia in cui un addetto alla contabilità ha scoperto nel bilancio una discrepanza di milioni di dollari. Ma non appena l’uomo inizia a sistemare i conti, avvicinandosi sempre più alla verità, il numero dei cadaveri inizia ad aumentare.
Il regista, sceneggiatore, produttore cinematografico e attore statunitense punta ancora una volta sul thriller, ma gli esiti non sono quelli sperati, o almeno quelli che ci saremmo aspettati di vedere da un autore che con i generi e le sue contaminazioni ha sempre avuto un certo feeling. In tal senso, lo abbiamo visto misurarsi con le più disparate tonalità messe a disposizione dal ventaglio del cinema di genere, passando dai drammi sportivi (Miracle e Warrior) a quelli familiari (In cerca d’amore), dal poliziesco al western (Jane Got a Gun). In tutti i casi, il grande schermo si è trasformato in una tavolozza dove ha voluto e saputo mescolare il più possibile i colori, dando origine a pellicole capaci di accogliere i caratteri riconoscibili di diversi generi. The Accountant non fa eccezione, con una consistente base mistery a fare da scheletro all’architettura generale di uno script ibrido, nella quale trovano spazio innesti che richiamano al crime, al drama e all’action. Quest’ultimo, forse, è l’unica componente degna di nota, l’unica che a conti fatti impedisce all’intera operazione di affondare miseramente nell’oceano della dimenticanza. Sono, infatti, alcune delle sequenze d’azione disseminate qua e là a macchia di leopardo sulla timeline a tenere a galla il film. Non rappresentano il meglio di quello che il genere in questione è in grado di offrire, ma ci si può e ci si deve accontentare di quello che passa il convento, poiché funzionano sia da un punto di vista del ritmo che da quello dello show pirotecnico. Fatto sta che non si può pretendere che una misera manciata di scene di buona fattura, come quelle che vedono il protagonista alle prese con conflitti a fuoco e a mani nude contro mercenari e sicari che in tre occasioni tentano di estirparlo dalla faccia della terra, possano bastare a saziare l’appetito dello spettatore di turno.
L’ultima fatica dietro la macchina da presa di O’Connor ha nella drammaturgia confusa, bulimica e dissestata, un pesante e irrecuperabile tallone d’Achille. In The Accountant si verifica un cortocircuito narrativo, provocato da una serie di elementi che fanno fatica a stare insieme a causa della loro inconsistenza. Bill Dubuque consegna al regista americano uno script che ha carenze strutturali piuttosto evidenti, legate in primis alla fragilità e alla pochezza del plot e dei personaggi che lo animano, a cominciare dal Christian Wolff interpretato da un Ben Affleck monocorde. Si assiste a un gioco del gatto con il topo che va in scena in un thriller ampiamente prevedibile, dove la matassa si sbroglia con facilità anche a molta distanza dal suo epilogo. Insomma, guardare un film come questo è come giocare a poker a carte scoperte.

Francesco Del Grosso

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