Una donna e il suo mondo
Una donna forte e un importante cambiamento. Un matrimonio da salvare, insieme alla crudele lontananza. E, nel frattempo, una nuova città, un nuovo lavoro, nuove conoscenze. Questo è ciò su cui si focalizza il lungometraggio Temporada, presentato in concorso Torino 36 alla trentaseiesima edizione del Torino Film Festival, nonché opera seconda del giovane regista brasiliano André Novais Oliveira, il quale, con un approccio quasi neorealistico, ci ha voluto raccontare per immagini la storia – apparentemente semplice, ma, in realtà, assai più complessa di quanto possa inizialmente sembrare – di Juliana (Grace Passo), giovane donna trasferitasi dalla piccola periferia al grande centro di Contagem, al fine di iniziare un nuovo lavoro nella sanità pubblica. La donna non fa che attendere notizie di suo marito Carlos, il quale è rimasto nella loro vecchia casa, con la promessa di raggiungerla presto. L’uomo, tuttavia, non si fa sentire né risponde al telefono, a scapito di un matrimonio già di per sé in crisi in seguito a un drammatico evento accaduto alla coppia anni prima.
Con un approccio zavattiniano che non sempre riesce a centrare l’obiettivo, il regista si concentra esclusivamente sulla sua intensa protagonista, abbracciando fin dai primi minuti il suo punto di vista e mostrandoci, attraverso le sue soggettive percezioni, l’approccio con la grande città, il grande centro urbano, talmente nevrotico da inghiottire letteralmente ogni nuovo arrivato e all’interno del quale ci si sente inizialmente spaesati e, non per ultimo, quel sordo senso di solitudine e di abbandono che la accompagna dalla mattina alla sera, nonostante le nuove amicizie strette sul posto di lavoro e la compagnia di sua cugina. E così, pian piano, iniziamo a conoscere anche qualche elemento riguardante il passato della protagonista stessa, iniziando noi stessi a identificarci con lei e a entrare velocemente in sintonia con la sua figura.
A tal fine, il regista è riuscito appieno nei suoi intenti, grazie al suo soggettivo approccio e alla sua regia volutamente priva di fronzoli ed essenziale a raccontare un cambiamento tanto drastico quanto fondamentale nella vita di una persona. Eppure, questo suo restare costantemente a stretto contatto della protagonista si è ben presto rivelato un’arma a doppio taglio, proprio a causa dei graduali snodi narrativi messi in scena: se, infatti, da un lato, ottimamente viene resa l’idea della nuova vita di Juliana e della sua personalità, dall’altro l’intero lavoro – man mano che si va avanti con la messa in scena – finisce per mancare di ritmo, necessitando di qualcosa di più “esplicito”, di qualcosa che vada, anche solo per un attimo, oltre l’intimo della protagonista stessa. L’impressione che si ha, alla fine della visione, è quella che ci sia ancora molto di non detto, quasi come se il discorso inizialmente aperto non sia stato chiuso definitivamente. Segno, questo, del fatto che lo stesso regista, malgrado una sua visione sincera e pulita e pur essendo sulla buona strada per trovare il giusto approccio a ciò che vuole raccontare, deve ancora imparare a gestire i numerosi elementi e tutti gli ostacoli che si incontrano durante la lavorazione di un film.
Marina Pavido