Vita e morte sono inestricabilmente connessi
Il ponte della città di Višegrad diventa nel libro “Il ponte sulla Drina” del grande scrittore Ivo Andrić il perno di una narrazione che ci parla di vita e morte. Tutto il libro è imperniato su questo inestricabile rapporto che si ripete sempre uguale nei secoli, come una spirale infinita. Pur in una chiave più modesta lo stesso fa la giovane regista székely Cecilía Felméri con il laghetto di pesca sulle cui sponde si svolge questo Spirál, suo esordio nel lungometraggio, presentato in concorso al 39° Bergamo Film Meeting. La Felméri rinuncia al grande affresco epico per concentrarsi su di una storia intima che ci parla della difficoltà di cambiare nei toni del dramma psicologico.
Il titolo è calzante. Il film si muove in una spirale temporale sempre uguale che ben rappresenta il ciclo della vita e quello della natura; i quali sono due spirali che si ripetono all’infinito, sempre uguali e sempre diverse. Il ritmo della narrazione è lento, sempre uguale, come quello della natura. Sembra che non succeda mai niente e invece succede tanto, succede che il ciclo naturale continua a muoversi, noi fatichiamo ad accorgercene perché ci troviamo al suo interno e ci muoviamo con lui. È questo forse il dramma, non ci accorgiamo di muoverci. La tecnica di ripresa presenta certa tendenza del cinema europeo con le sue inquadrature strette e camera a mano. Qui però non si ripete l’effetto di altre pellicole, nelle quali questo modo di riprendere spinge lo spettatore a sentirsi trascinare all’interno del mondo diegetico. Nell’opera della Felméri si avverte sempre una distanza fisica dai personaggi, benché la generale atmosfera di intimità e raccoglimento contribuisca a far sentire allo spettatore un forte legame emotivo con i protagonisti. Essi non restano degli sconosciuti, siamo portati a simpatizzare con loro ed a sforzarci di comprendere i moti del loro animo, quel mondo interiore che si cela dietro i loro sguardi, ai quali più volte l’occhio della macchina da presa si sostituisce, aiutandoci nel processo di immedesimazione. È tutto molto delicato, anche le emozioni più forti e violente, e tutto viene calato in una dimensione di naturalità. La vita e la morte appaiono avere un loro ruolo ben definito e nulla ci sconvolge o ci sembra incongruo. Il piccolo lago di pesca diventa un luogo fuori dal tempo e dal mondo dell’uomo moderno e si avverte la sensazione di essere stati trasportati all’interno di una delle storie dell’antico folklore ungherese. Attraverso la metafora della spirale Cecilía Felméri ci parla di quanto sia difficile muoversi davvero all’interno della propria vita. È estremamente facile finire in una spirale nella quale ci si adagia per rassegnazione o perché non si ha la forza di reagire. Ma è possibile rompere la spirale? Sì, sembra rispondere la regista nel finale, con il protagonista Bence, un dolente ed intenso Bogdan Dumitrache, che abbandona il lago per sempre, ma è necessario un grande atto di volontà.
Luca Bovio