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Sognare è vivere

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VOTO: 5

Una storia di amore e di tenebra per un debutto riuscito solo a metà

È dello scrittore ebreo Amos Oz il libro che Natalie Portman sceglie per cimentarsi, per la prima volta nel lungometraggio, dietro alla macchina da presa dando vita a Sognare è vivere, la prima opera che firma come regista. Nata a Gerusalemme, naturalizzata statunitense, l’attrice Premio Oscar offre una trasposizione del romanzo autobiografico “A Tale of Love and Darkness”, scritto nel 2002 e ambientato tra gli anni 40 e gli anni 50 del Novecento, quando gli israeliani, ancora sotto il mandato britannico, riuscirono a guadagnarsi l’indipendenza. Un romanzo storico dunque, che parla degli ebrei e della loro storia, e la racconta da un insolito punto di vista, senza espliciti riferimenti all’Olocausto. Una storia complessa che fa da sfondo alle vicende del piccolo Amos, un bambino di 10 anni fuggito insieme alla famiglia dall’Europa quando ancora era sotto alla morsa dei nazisti. Una fuga per la libertà, grazie alla quale la famiglia riesce a conquistarsi una vita dignitosa.
Ma unione familiare e dignità riconquistata sembrano non bastare a Fania, la giovane madre di Amos, magistralmente interpretata dalla stessa Portman, che, dopo la paura della guerra e il sollievo per la fuga, trascorre le sue giornate in preda alla noia, a un senso di malessere apparentemente immotivato, dal quale riesce a trovare rifugio solo nei momenti in cui cattura l’attenzione del suo piccolo raccontandogli storie: Amos viene condotto ogni volta in un passato straordinario, dove fantasia e ricordi reali si fondono dando vita a racconti inverosimili. Sono le storie a tenere in piedi sua madre, ad aiutarla a ritrovare quella vitalità che il tempo sembra averle portato via. Storie che faranno del piccolo ascoltatore un grande scrittore. Storie che il marito non comprende, distorce, sminuisce, e la invita a mettere i piedi per terra, ad uscire dal mondo della menzogna. Incompresa, la bella protagonista comincerà man mano ad accusare se stessa di quello stato d’animo.
Con estrema fluidità, l’obiettivo della macchina da presa si sposta man mano dalla scena storico-politica alla storia di Fania, accompagnata dalla voce narrante dello stesso protagonista che la ricorda con affetto: un passaggio naturale, grazie al quale, senza rendercene conto, ci troveremo coinvolti nella storia di una donna e del suo malessere esistenziale.
Ma nonostante la morbidezza di questo passaggio, cui si sommano le ineccepibili doti registiche dell’attrice, che – c’è da riconoscerlo – a tutto fanno pensare meno che a un’esordiente, la malattia di Fania è trattata con una superficialità che fa perdere molti punti a una pellicola che aveva tutte le carte per risultare vincente.
Troppo repentino il passaggio dallo stato di sanità a quello di malattia; rimarrà perplesso e pieno di domande lo spettatore che assisterà al crollo di Fania, e se il tentativo nascosto dietro a questa apparente illogicità era trasmettere l’incapacità di comprendere dello stesso autore di fronte alla malattia della madre, l’impresa riesce solo per metà: per quanto l’empatia sia la cosa più importante da cercare nel rapporto con il pubblico, una propria chiave di lettura su come possano essere andate le cose è sempre utile offrirla, altrimenti, più che di partecipazione, il sentimento che rimane è di insoddisfazione per aver assistito a un’opera incompiuta.
Cosa scatena la malattia di Fania? Qual è il passaggio mancante? Forse le difficoltà attraversate e la consapevolezza di quanto stava vivendo il suo popolo? Forse il rapporto con il marito, da cui si sente sminuita, giudicata, in altre parole, non vista? E non basteranno nemmeno le sue parole, pronunciate nel pieno della crisi, a offrire una valida spiegazione: il film rimane pertanto un’ottima opera da un punto di vista documentaristico, in grado di offrirci uno spaccato della storia degli ebrei; ma allo stesso tempo monca sul piano emotivo, poiché disseminata di “pistole di Checov” che non vedremo mai sparare.

Costanza Ognibeni

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