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Socialmente pericolosi

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VOTO: 6.5

Gli amici non si abbandonano nel momento del bisogno

Chi conosce la linea programmatica del Bif&st saprà che nella kermesse pugliese c’è e c’è sempre stato, sin dalla sua nascita, uno spazio e un occhio di riguardo per le opere prime e seconde nostrane. La sezione competitiva ad esse dedicata é anche l’opportunità per il pubblico e gli addetti ai lavori per recuperare quegli esordi che, a differenza di altri, non hanno avuto una particolare visibilità, dettata come accade nella stragrande maggioranza dei casi da scarse opportunità distributive. Tra le pellicole selezionate nell’ottava edizione figura Socialmente pericolosi, prima esperienza dietro la macchina da presa del giornalista capitolino Fabio Venditti, transitata con moltissime difficoltà nei cinema lo scorso gennaio. All’epoca dell’uscita non eravamo riusciti a intercettarla e la proiezione in quel di Bari è servita a recuperarla. Un’occasione, questa, che abbiamo colto al balzo e che ci ha permesso di realizzare questa pubblicazione.
In Socialmente pericolosi il boss Mario Spadoni, camorrista condannato all’ergastolo, in occasione di un reportage dal carcere di Sulmona, conosce il giornalista ed inviato Fabio Valente. La loro confidenza cresce con il tempo e con gli incontri che si susseguono per scrivere un libro sulla terrificante guerra di camorra degli anni Ottanta. Insieme decidono di mettere in piedi un progetto di studio e di lavoro per i ragazzi di strada di Quartieri Spagnoli di Napoli. Un percorso durissimo per il giornalista romano che si immerge in quel mondo con delle regole tutte sue, dove il tipo di relazioni del mondo cosiddetto “normale” sono non soltanto disattese, ma addirittura del tutto sconosciute. Però ottenendo, a volte, dei risultati sorprendenti.
A un certo punto del racconto, a Spadoni viene diagnosticata una patologia gravissima quasi allo stato terminale e il suo nuovo amico si sente in dovere di combattere perché riceva cure adeguate. Quantomeno, per non lasciare che muoia senza averle provate tutte. Si offre di ospitarlo agli arresti domiciliari nella sua casa di Roma, dove vive con la moglie e la figlia quindicenne, provocando inevitabilmente anche turbolenza familiare. Leggendo la sinossi e osservandone gli sviluppi sullo schermo, per qualche strano motivo torna alla mente il ricordo di Un boss in salotto di Luca Miniero.
Come avrete potuto intuire, l’analogia tra le due opere sta proprio nella convivenza sotto lo stesso tetto di un affiliato alla malavita organizzata e un onesto nucleo familiare. Ci rendiamo perfettamente conto della distanza in termini di spessore drammaturgico e non solo che separa i due film e soprattutto le rispettive storie narrate, ma si sa la mente è solita giocare brutti scherzi e noi abbiamo deciso di assecondarla per avere un punto di partenza al quale appoggiarci per potere imbastire un’analisi critica, più o meno esaustiva, di Socialmente pericolosi. In questo caso, la situazione che accomuna le due pellicole, seppur con dinamiche e registri diametralmente opposte per svariati motivi che andremo qui di seguito ad evidenziare, genera un vero e proprio terremoto nel focolaio domestico di turno. Ma a parte il carattere straordinario dell’evento, è il DNA del progetto audiovisivo a distanziarne gli esiti, allontanandoli come “corpi” alla deriva. È chiaro che la nostra preferenza, nonostante qualche riserva legata alle debolezze strutturali e tecniche emerse durante la visione, vada all’esordio dietro la macchina da presa del giornalista capitolino.
Ci troviamo al cospetto di un’opera sentita, sincera, coraggiosa e fatta con il cuore, nata da una necessità personale e non da velleità economiche. Ed è un’anima questa che ci piace mettere in evidenza. Lo dice in primis il carattere indipendente del progetto, tanto nella produzione quanto nel modus operandi che gli ha permesso di prendere forma e sostanza sulla carta prima e sullo schermo poi. “È un film nato dalla strada, che si è scritto da solo”, come ha ribadito più volte il regista nel corso della conferenza stampa. Tale necessità viene dal bisogno di tramutare in immagini e parole un’esperienza di vita vissuta sulla propria pelle, che poi è quella del regista stesso. Quest’ultimo, avrebbe potuto, magari con meno difficoltà, ricavarne un documentario autobiografico, ma ha preferito, per quanto ci riguarda giustamente, affidare a un lungometraggio di fiction il racconto di questa storia vera, che a tratti ha un non so che di incredibile. Questo, dunque, non è il frutto dell’immaginazione dello sceneggiatore di turno, come nel caso di Un boss in salotto, ma il resoconto romanzato di quanto accaduto al regista. Del resto, la realtà è spesso più potente dell’immaginazione e questa storia ce lo dimostra ancora una volta. La forza intrinseca della vicenda narrata e le emozioni ad essa legate sono andate ad alimentare le pagine dello script e la sua trasposizione. Il tutto si presta a una ricostruzione con attori, ciononostante la verità non ha mai abbandonato i dialoghi e la trasposizione degli accadimenti. È lo stesso Venditti, la sua presenza e partecipazione a quegli eventi, a fare in modo che il flusso non venga mai interrotto, che non si spezzi a causa delle sirene tentatrici della finzione e dell’artificio.
Certo, come già accennato, i problemi non mancano e dipendono in gran parte dall’inesperienza registica di Venditti, che qui deve confrontarsi con una macchina, quella del cinema, che è ben diversa da quella con la quale si è confrontato in passato nel corso della sua carriera di giornalista. Le insicurezze e le imprecisioni tecniche, non consentono alla confezione di supportare sempre e comunque la scrittura, anch’essa non priva di passaggi a vuoto, di ridondanze e di snodi narrativi macchinosi. In tal senso, la commistione di linguaggi (le scene di fiction con i brani estrapolati dai documentari realizzati in giro per l’Italia dai ragazzi dei Quartieri Spagnoli) non sempre funziona e la fluidità della fruizione, infatti, ne risente. A colmare in parte quelle mancanze ci pensano, invece, i due interpreti, ossia Fortunato Cerlino e Vinicio Marchioni, rispettivamente nei panni di Spadoni e Valente. I loro duetti, l’intensità e la verità che li caratterizza, tengono a galla il film, tanto che quando vengono meno, la mancanza si fa sentire tremendamente, provocando un’evidente flessione. È chiaro, dunque, che il destino e la riuscita di Socialmente pericolosi sono strettamente legati alle loro performance. Sono il valore aggiunto, senza il quale il film di Venditti sarebbe rimasto schiacciato sotto il peso di una storia difficile da raccontare, soprattutto per il carico di temi universali (l’amicizia, l’amore, la fiducia, il rispetto, la redenzione e il riscatto) e anche di sottotracce intime che si porta dietro lungo la timeline. Il carico in questione è molto pesante e, infatti, la scrittura non riesce sempre a sviluppare e a supportare a dovere la tanta carne messa al fuoco (il rapporto tra il personaggio di Valente e di sua moglie, ma soprattutto la questione dei suicidi nel carcere di Sulmona alla quale si fa riferimento all’inizio del film), ma quando ciò avviene i risultati si vedono e l’opera mostra il suo lato migliore.

Francesco Del Grosso

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