Il lungo inverno del nostro (cinefilo) scontento
A guardare oggi un documentario come Sassi nello stagno – opera prima di Luca Gorreri – si sarebbe tentati di definirlo quasi alla stregua di un gesto, se non eversivo, indubbiamente provocatorio. Al contrario, il lungometraggio costituisce la cronaca fedele di un passato nemmeno troppo remoto che è appartenuto a chi ha condiviso un certo modo di fare e divulgare Cinema, inteso come patrimonio culturale da preservare e diffondere senza pensarlo similarmente ad uno dei tanti prodotti da vendere della contemporaneità.
Sassi nello stagno racconta, in alcuni momenti con un certo didascalismo di fondo ma sempre animato da profonda e sincera passione, la genesi e lo sviluppo di un festival cinematografico, quello di Salsomaggiore (originariamente partito a Monticelli Terme per le prime due edizioni), andato poi incontro a numerosi cambi di denominazione nonché rotta creativa. Ciò che interessa Gorreri è comunque il fermento, l’idea utopica che animava quegli irripetibili periodi durante i quali fioriva l’associazionismo con conseguente appendice dei cineclub, in cui la Settima Arte era veramente tale. E appunto come tale resa patrimonio culturale alla portata di tutti, da vivere e interpretare secondo gusti ed esigenze soggettive attraverso un sottile filo rosso che univa autori e fruitori grazie anche alla preziosa mediazione di addetti ai lavori realmente innamorati di tale sogno. Un assunto che oggi suona assai più fuori dal tempo di quanto gli anni trascorsi lascerebbero supporre.
Del resto già programmare un festival di cinema “d’essai” (virgolette d’obbligo) in una località famosa per le terme e il turismo nonché sede di diverse edizioni di Miss Italia, pareva una contraddizione in termini che solo un manipolo di coraggiosi avrebbe potuto mettere in atto. Ci pensarono alcune menti provenienti dalla fucina che diede vita al celeberrimo Filmstudio romano, come Adriano Aprà, Patrizia Pistagnesi e Luciano Recchia, dalle cui interviste emerge non solo il ricordo di stagioni densissime, ma anche il nitore di un obiettivo che era quello di portare il cinema di qualità proveniente da tutto il mondo ad un grado di conoscenza quanto più possibile allargato. Un impegno titanico, considerando che la pellicola era al tempo l’unico medium che poteva permettere la fruizione di un film e la vastissima scelta tecnologica di oggi pareva pura fantascienza. Accanto a piacevoli aneddoti quali il doveroso ricordo del fondamentale ruolo di “mecenate” svolto da Giuseppe Bertolucci (uno dei grandi uomini di cinema a tutto tondo di cui in Italia si è perso purtroppo lo stampo), le testimonianza della vedova e della figlia di Samuel Fuller, le quali ricordano con nostalgia i momenti trascorsi al festival, o anche la scoperta del cinema dei fratelli Coen con l’avventurosa proiezione/scoperta al festival del loro indimenticabile esordio Blood Simple (1984), sono le parole a rappresentare il cuore pulsante di un documentario che dimostra come un tradizionalismo formale composto dall’alternarsi di interviste, immagini di repertorio e inserti girati ad hoc, possa approdare a vertici di messaggio pressoché inusitati, se rapportati al presente. Perché alla fine Sassi nello stagno, oltre a rappresentare un atto d’amore per un cinema che non esiste più, assume l’importanza di un gesto di ribellione verso l’omologazione imperante, la stessa che pretenderebbe l’ignoranza – non solamente cinematografica – come sempre accade via maestra per esercitare un potere privo di opposizione.
C’è una frase, pronunciata da Patrizia Pistagnesi nel corso di Sassi nello stagno, che illumina al meglio il senso sia delle scelte di quel periodo storico che dello stesso documentario. Quella in cui si afferma che, all’epoca, non c’era differenza tra registi, critici, cinefili e semplici spettatori; tutti, in modo paritario, si sentivano parte attiva di qualcosa di grande da cui sarebbero potute scaturire solo cose positive. Nuove idee, progetti, lavori da realizzare. Un gruppo di menti attive, propositive, associate ad una coscienza collettiva da nutrire ogni giorno, insomma. Esattamente ciò che manca, ora, ad un paese come il nostro dove la mancanza di Arte rappresenta un neo simile ad un buco nero e la cultura stessa viene sistematicamente ghettizzata in nome di ragioni (solo economiche?) superiori. Sassi nello stagno forse ci parla di un’utopia; ma sta allo spettatore comprendere con esattezza quanto quest’ultima possa essere lontana o vicina.
Daniele De Angelis