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Sanctuary Station

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VOTO: 7,5

Parole e gesti che risuonano nelle foreste

Tra i punti all’ordine del giorno e nella mission di un festival ci dovrebbe essere anche quello di portare all’attenzione del pubblico e in alcuni casi di fargli scoprire degli autori e delle autrici che per scelta hanno deciso di stare volutamente fuori dai radar e al margine dell’industria dell’audiovisivo, di non omologarsi alle logiche del mercato e di proporre una visione altra e personale rispetto al modo di fare e concepire la Settima Arte. Una di queste è quella proposta da Brigid McCaffrey, alla quale la Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, nel corso della sessantesima edizione, ha dedicato una retrospettiva delle sue opere, compresa l’ultima dal titolo Sanctuary Station, presentata a Pesaro in anteprima mondiale. In tal senso, la decisione della direzione artistica della kermesse marchigiana di organizzare un focus e di dare visibilità al lavoro della regista e artista statunitense è stata particolarmente gradita.
La sua pratica artistica consiste nel documentare ambienti e persone in uno stato di flusso, e in particolare con i suoi film studia i due poli dell’autonomia e della convivenza vissuti da persone che intrattengono distinti rapporti con il territorio. Le sue pellicole, in cui la rappresentazione del sé e del luogo si confonde, registrano le mutazioni fisiche ed emotive dei soggetti, dando luogo a sfumati ritratti. Sanctuary Station da questo punto di vista non fa eccezione, posizionandosi coerentemente, tanto per modus operandi e approccio alla materia quanto per tematiche e contenuti, nel corpus, nello stile e nella poetica dell’autrice.
Girato in 16mm, in B/N e incorniciato in un 4:3 dopo una preparazione lunga sette anni, il nuovo documentario della McCaffrey ripropone con forza il binomio essere umano-ambiente, nel quale i corpi di uomini e donne diventano un tutt’uno in una relazione simbiotica che porta il primo a confondersi e diventare parte integrante del secondo. Il ché porta lo sguardo della regista americana ad essere al contempo antropologico, esistenziale, ambientalista, spirituale e come in questo caso anche artistico. In Sanctuary Station, la cineasta disegna un ritratto collettivo di comunità sparse fra le foreste di sequoie e i terreni più remoti della California nordoccidentale, per la precisione quelli di Mendocino County, laddove la compianta Mary Norbert Korte (scomparsa nel 2022), una ex suora si era costruita una capanna nel profondo della vegetazione, in prossimità di una ferrovia forestale in disuso, da dove raccoglieva testimonianze dei giovani difensori della foresta attivi nella zona e raccontava in forma diaristica quanto accadeva in quei luoghi fuori dal tempo e lontani dal caos della metropoli. Questo porta la donna ad assumere una centralità nel film e a diventare di conseguenza il baricentro su e intorno al quale la cinepresa della McCaffrey ritrae manifestazioni per la salvaguardia dei boschi, momenti di lutto e pratiche quotidiane nella sfera del privato. Il tutto oscillando costantemente fra il desiderio di solitudine e il bisogno di collaborazione, due dimensioni che però non entrano mai in rotta di collisione, convivendo in maniera equilibrato e armoniosa.
L’osservazione e il pedinamento sono gli “strumenti” ai quali la regista ricorre per penetrare, facendosi invisibile, nelle topografie fisiche e nelle vite delle persone che le abitano, scandagliando il reale e il quotidiano senza mai invaderlo, alterarlo e manipolarlo. A intervalli regolari e in modalità randomica, la McCaffrey si concede e concede al fruitore di turno delle parentesi più astratte e oniriche, staccandosi solo momentaneamente dal realismo per dare libero sfogo a un cinema più sperimentale, ma senza perdere mai la bussola e la direzione iniziale. Tali segmenti, seppur diversi per stile e concezione, non rappresentano però dei corpi estranei, bensì una punteggiature ulteriore alla quale l’autrice ricorre per creare stratificazioni nell’impianto visivo dando ad essi un’aurea di puro lirismo.

Francesco Del Grosso

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