Lei ci guarda
Voci di corridoio giunte da oltreoceano parlano di spettatori in preda al terrore fuggire a gambe levate dalle sale durante le proiezioni festivaliere al Sundance e Toronto di Presence, l’ultima fatica cinematografica di Steven Soderbergh, che oltre alla regia ne ha firmato con pseudonimi vari anche la fotografia e il montaggio.
Dopo averlo visto al 34° Noir in Festival, laddove è stato presentato in concorso prima dell’uscita sugli schermi nostrani la prossima primavera con Lucky Red, possiamo dire che le reazioni di cui sopra ci sono sembrate alquanto esagerate per un film si disturbante e ansiogeno, ma che pur fruito nelle migliori condizioni audiovisive possibili e con la giusta atmosfera sia in grado di provocare simili reazioni. Ciò non significa però che quello scritto da David Koepp e diretto dal regista statunitense non sia un horror capace di generarne delle altre, come ad esempio quella di cogliere in controtempo e di sorpresa lo spettatore di turno facendolo saltare dalla poltrona con soluzioni tipiche del jump-scare quali improvvise apparizioni o rumori sinistri, oppure tenere chi guarda sul filo del rasoio stringendolo in una morsa di tensione latente non necessariamente consumata, metterlo profondamente a disagio in uno stato di perenne malessere e scomodità imprigionandolo come i protagonisti in una topografia circoscritta tanto claustrale quanto asfissiante dove accadono cose e dalla quale non si esce mai se non in prossimità dei titoli di coda, o ancora spaventarlo con lievitazioni di oggetti, porte che si chiudono da sole e mobili o soprammobili che crollano andando in frantumi.
Il tutto però rappresenta normale amministrazione per tutti coloro chi si confrontano con il filone delle case infestate. Del resto le poche righe di sinossi che accompagnano Presence ne confermano l’appartenenza per stilemi e archetipi, oltre che il pieno rispetto delle regole d’ingaggio che l’autore e chi lo ha sostenuto in fase di scrittura hanno seguito alla lettera. Il plot infatti potrebbe appartenere a qualsivoglia hounted-house movie che si rispetti, con l’ennesima famiglia che si trasferisce in una casa in periferia su più livelli, per poi convincersi ben presto di non essere da soli: una presenza ultraterrena sembra abitare l’edificio. Cosa le sia accaduto e il perché sia rimasta bloccata tra quelle quattro mura ovviamente lo lasciamo alla visione, ma non c’è da aspettarsi nulla di così sconvolgente o inedito rispetto alle precedenti occasioni. A rincarare la dose ci prova poi Koepp che alle dinamiche spettrali va ad aggiungere crisi e drammi domestici che mette il nucleo familiare davanti a ulteriori ostacoli.
Ma se tutto questo rientra più o meno nell’iter narrativo e drammaturgico di prodotti come questi, con il J-Horror che in tal senso ha fatto scuola e cambiato ulteriormente le carte in tavola, allora dove bisogna andare a ricercare quel qualcosa capace di dare il giusto risalto alla pellicola di Soderbergh, che ad oggi, escludendo il thriller dalle venature orrorifiche Unsane del 2018, è la prima vera sortita nel genere. Quel qualcosa non va ricercato nel cosa piuttosto nel come la vicenda viene narrata, ossia attraverso il dispositivo tecnico utilizzato, vale a dire il P.O.V., che nelle mani di uno sperimentatore incapace di essere banale come Soderbergh diventa il motore portante e il plus del film. La novità non sta di certo nella visione in soggettiva, dato che nell’horror è una soluzione ampiamente teorizzata e sfruttata, bensì nella scelta di raccontare l’intera storia dal punto di vista della presenza del titolo. In questo modo, attraverso una successione di lunghi piani sequenza con focali grandangolari spinte al limite delle distorsioni ottiche che percorrono e scuotono la topografia, il regista di Atlanta ha deciso di dare una scossa all’impianto del più classico raccontandolo dal punto di vista della presenza infestante che, naturalmente, non vediamo e non vedremo mai. Proprio questo aspetto consente di incutere alla visione quella dose di curiosità e paura che altrimenti non avrebbe avuto a causa di una vicenda decisamente ordinaria per il filone di riferimento, sul quale da anni, proprio in virtù del proliferare a tutte le latitudini di plot simili, è diventato sempre più difficile pronunciarsi e offrire qualche spunto inedito.
A conti fatti Soderbergh riesce a restituire sullo schermo qualcosa di molto vicino a un videogioco o a un’esperienza VR immersiva che, insieme alle performance attoriali (tra cui quella di Lucy Liu nel ruolo della madre), alla fotografia e al lavoro sul sonoro, differenziano quantomeno Presence da un qualsiasi found footage attualmente in circolazione. Il ché dona quantomeno un senso all’operazione.
Francesco Del Grosso