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Per mio figlio

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VOTO: 5

Sia fatta giustizia!          

Mollerei un uomo per un film, ma non mollerei mai un film per un uomo!”. Perfettamente d’accordo con lei, signora Baye. Se si tratta di un film del calibro di Effetto notte (capolavoro del 1973 diretto dal grande François Truffaut), infatti, chiunque farebbe carte false per poterci lavorare anche solo per un giorno ed anche solo come runner. Di film del genere, però, se ne vedono ben pochi in giro, purtroppo. Capita spesso, dunque, che attrici del calibro di Nathalie Baye, appunto, debbano accontentarsi di pellicole mediocri e maldestre, malgrado le indubbie buone intenzioni iniziali. Stiamo parlando, in questo caso, di Per mio figlio, secondo lungometraggio del giovane Frédéric Mermoud, presentato in anteprima all’ultimo Festival di Locarno e tratto dal romanzo “Moka” di Tatiana De Rosnay, da cui deriva anche il titolo originale del film.
Da quando Diane ha visto morire il suo unico figlio adolescente, investito da una macchina, non le è rimasto più nulla. L’unico suo scopo, ormai, è trovare l’automobilista pirata e vendicare il ragazzo. Grazie ad un investigatore privato, un giorno la donna scopre che i proprietari della macchina che ha ucciso suo figlio abitano ad Evian – sull’altra sponda del lago di Ginevra – e che quel giorno alla guida dell’auto c’era una donna bionda. A Diane, dunque, non resterà che partire sulle tracce degli assassini.
Ad uno spettatore preparato ed esperto non sfuggirà, già dopo un primo, sommario sguardo, qualche rimando chabroliano non ufficialmente dichiarato, presente all’interno della trama stessa. Il problema è che quest’opera di Mermoud – al di là delle numerose similitudini dal punto di vista della storia stessa – di punti in comune con la cinematografia e le tematiche di Claude Chabrol ha ben poco. Di fatto, se vogliamo, Per mio figlio di potenzialità ne ha non poche, date le mille sfaccettature dell’animo umano ed il sempre attuale tema della giustizia personale. Peccato che nessuna di tali potenzialità è stata, qui, sufficientemente sfruttata, dal momento che Mermoud ha preferito donare al tutto un tono pericolosamente romanzesco che riesce a rendere il prodotto finale privo di una propria, marcata identità, nonché poco credibile fin dall’inizio. A partire dai dialoghi, eccessivamente macchinosi che danno quasi l’impressione di essere stati incollati in determinati punti dello script, senza mai del tutto amalgamarsi ad esso, però. Ne sono un esempio le scene che vedono protagoniste la Baye – titolare di una profumeria di Evian e proprietaria dell’auto che ha ucciso il figlio di Diane – ed Emmanuelle Devos, nel ruolo della protagonista. Triste figura, inoltre, quella del compagno della Baye stessa: negativa e viscida al punto giusto, ma priva di quello spessore e di quella complessità che l’avrebbero resa davvero odiosa, oltre che – come spesso accade per gli antagonisti – decisamente interessante.
Le poche note positive di questo secondo lungometraggio di Mermoud sono, come si può ben intuire, le prestazioni attoriali delle brave Emmanuelle Devos e Nathalie Baye, le quali, seppur qui mal sfruttate, sanno sempre dar vita a personaggi complessi senza mai andare sopra le righe. E poi, non dimentichiamo i bellissimi paesaggi: il lago di Ginevra, i piccoli villaggi sulle sue sponde e le città di Losanna e di Evian. Ottime location che, solo al guardarle, sanno regalarci, in qualche modo, un certo appagamento.
Peccato che Per mio figlio abbia, in fin dei conti, così pochi spunti di interesse. Eppure, come già è stato detto all’inizio, di potenzialità ne ha avute non poche. Con le scelte registiche e stilistiche qui effettuate, però, il rischio è quello di finire ben presto nel dimenticatoio, insieme ai numerosi lungometraggi del genere che – con la pretesa di essere il thriller del secolo – alla fine si sono rivelati soltanto enormi sprechi di tempo e di denaro.

Marina Pavido

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