Passato e presente
Trond (Stellan Skarsgård) ha 67 anni ed è un uomo solo. O meglio, è un uomo solo (in parte) per scelta. Se, infatti, l’uomo è da poco rimasto vedovo della moglie, è anche vero che egli, per tutta la sua vita trascorsa per la maggior parte del tempo a Stoccolma, altro non ha desiderato che tornare al suo villaggio d’origine sito in mezzo alla natura, nella Norvegia dell’Est. Pronto a entrare nel nuovo millennio in totale solitudine, dunque, Trond verrà svegliato da una sua vecchia conoscenza, Lars (Bjørn Floberg), il quale lo farà tornare con la mente ai suoi anni passati, ripercorrendo le tappe fondamentali del suo percorso di crescita.
Questo è ciò che viene messo in scena in Out Stealing Horses, ultima fatica firmata Hans Petter Moland presentata in Concorso al 69° Festival di Berlino, nonché trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Per Petterson.
All’interno di un Concorso (almeno fino a questi primi giorni) non sempre convincente, dunque, ecco finalmente fare la sua apparizione sul grande schermo un nome del calibro di Hans Petter Moland, il quale, con il suo stile dalla regia semplice e pulita e dall’ironia spesso tagliente e – perché no? – talvolta anche politically incorrect (come tradizione nordeuropea vuole, d’altronde), difficilmente delude le aspettative di pubblico e critica. È stato così per le sue precedenti opere ed è così anche per questo suo ultimo lavoro, il quale, tuttavia, presentandosi sia come melodramma famigliare che come vero e proprio romanzo di formazione, manca, rispetto ai precedenti lavori dell’autore, della sopracitata ironia nordica che tanto sta a caratterizzare il suo stesso stile di messa in scena. Poco male, però. Malgrado ciò, infatti,il lungometraggio in questione può dirsi più che riuscito.
Il Trond messo in scena da Moland attraversa, nel corso della sua esistenza, grandi disgrazie, unitamente a momenti di totale spensieratezza. Ed ecco che le scene in cui vediamo il ragazzo giocare all’aperto con il suo amico Jon o aiutare suo padre a lavorare con i tronchi degli alberi – con tanto di imprevisti e correlati drammi inaspettati – vedono come ulteriore protagonista lo stesso paesaggio, complice anche un’azzeccata regia e una fotografia virata tendenzialmente ai toni del blu. È la volta, questa, di ragazzi che corrono spensierati nei prati, che si divertono a rubare cavalli (da qui lo stesso titolo) o ad arrampicarsi sugli alberi (particolarmente d’impatto – e pregno di un forte simbolismo – a tal proposito, il momento in cui vediamo Jon che, affranto per la morte del fratellino, in un gesto folle e di disperazione prende in mano un nido su di un albero schiacciandolo, con tanto di uova dentro).
Se, dunque, a un primo impatto, può sembrare eccessivamente sbilanciato il rapporto tra presente e passato, con flashback che sembrano prendersi quasi tutto lo spazio all’interno della messa in scena, vediamo come, tuttavia, alla fine dei conti tutto scorre in modo naturale e lineare, senza che particolari eventi abbiano un peso eccessivo su ciò che succede in futuro, rispettando alla perfezione l’andamento naturale di una vita umana.
Fatta eccezione, dunque, per qualche leggero scivolone e per qualche momento poco riuscito (come, ad esempio, la scena in cui il giovane Trond, appena giunto in Svezia, sta per tirare un pugno a un passante che non sa dargli le informazioni di cui ha bisogno), questo ultimo lavoro di Hans Petter Moland sembra distinguersi su tutti, all’interno di un Concorso tiepidino, almeno fino a questi primi giorni di festival.
Marina Pavido