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On Happiness Road

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VOTO: 7.5

La strada per la felicità

Che ci piaccia o no, quando si pensa all’animazione orientale, inevitabilmente ci viene in mente immediatamente quella giapponese. E, di fatto, non abbiamo sempre torto. Merito, soprattutto, dell’ormai storico Studio Ghibli, che, fondato nel 1985 da Hayao Miyazaki e dal compianto Isao Takahata. Ha fatto sognare grandi e piccini in ogni angolo del mondo. Eppure, con uno sguardo attento e tanta voglia di scoprire, di belle sorprese se ne possono avere anche nel momento in cui capita di imbattersi in opere di animazione provenienti anche da altri paesi dell’estremo oriente. Una scoperta piuttosto interessante, ad esempio, è stato il lungometraggio On Happiness Road, diretto dalla regista taiwanese Sung Hsin Yin e presentato in anteprima alla 20° edizione del Far East Film Festival.
Con una forte componente autobiografica, il lavoro ci racconta le vicende di Lin Shu-chi, la quale, dopo essere venuta a conoscenza della morte di sua nonna, decide di tornare per un periodo nella cittadina taiwanese dove è nata e cresciuta – precisamente in via Felicità – e che aveva abbandonato soltanto in età adulta per trasferirsi negli Stati Uniti. L’incontro con i suoi genitori e con alcuni amici d’infanzia l’aiuteranno a riflettere sulla sua vita e sui suoi desideri.
E così, con continui flashback e numerose scene oniriche, le vicende della giovane Chi vanno di pari passo con la storia del Taiwan stesso, con la sua politica, la sua cultura, i suoi movimenti studenteschi e le sue disgrazie. Un lungometraggio sentito e personalissimo, in cui si ripercorrono quarant’anni di storia di un’intera nazione, senza la pretesa di voler lanciare a tutti i costi un preciso messaggio politico, ma dove la messa in scena si fa espressione semplice e diretta di un grande amore nei confronti del proprio paese e delle proprie origini. Origini che, ovviamente, vengono intese anche nell’accezione di vere e proprie tradizioni popolari (particolarmente emblematico, a tal proposito, il personaggio della nonna di Chi, aborigena taiwanese che, come vediamo durante i flashback, ogni volta che va a trovare l’adorata nipote, non fa che presentarle nuove, bizzarre usanze).
Una riflessione particolare, inoltre, merita la realizzazione grafica. Particolarmente suggestiva l’animazione in 2D che prevede fondali realizzati con acquerelli dai toni prevalentemente pastello che contrastano sapientemente con figure dai contorni netti e ben delineati. Per non parlare dei momenti onirici o riguardanti l’immaginario di Chi bambina, dove i contorni spariscono del tutto, le immagini e i personaggi di fanno mutanti e non mancano raffinati riferimenti all’immaginario fiabesco che stanno a ricordarci che, in fondo, nessuno – né la protagonista, né tantomeno noi – ha in realtà mai smesso di essere bambino.
Ed ecco che – con un lungometraggio in cui, per certi versi, si sente forte l’influenza di lavori come Pioggia di ricordi (1991) o I miei vicini Yamada (1999), entrambi del maestro Takahata e a cui, forse, si può rimproverare una sceneggiatura che tende a farsi leggermente più sfilacciata man mano che ci si avvicina al finale – il mondo dell’animazione taiwanese ha trovato una degna rappresentante in Sung Hsin Yin, la quale, con grande sensibilità e un lirismo di fondo tipico della cultura orientale, ha saputo mettere in scena una storia personale e universale allo stesso tempo, la storia di una singola persona e quella di un’intera nazione, apologia degli affetti, delle tradizioni e degli antichi valori, che vede in un singolare rapporto nonna-nipote una perfetta connessione tra presente e passato, tra sé stessi e il resto del mondo. Una strada sicura per la felicità.

Marina Pavido

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