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My Days of Mercy

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VOTO: 6.5

Tra due fuochi

Tra le visioni emotivamente più coinvolgenti della 32esima edizione del Festival Mix Milano c’è stata senza ombra di dubbio la proiezione di My Days Of Mercy, l’opera terza di Tali Shalom-Ezer, presentata nella competizione della kermesse meneghina a distanza di alcuni mesi dall’inizio del tour festivaliero in quel di Toronto 2017 e del recente premio per la migliore performance femminile conquistato da Ellen Page al Guadalajara International Film Festival 2018. Un riconoscimento, questo, che sottolinea puntualmente l’enorme e fondamentale apporto che l’attrice statunitense ha dato alla causa, alla pari di quello altrettanto importante di colleghe o colleghi di set come Kate Mara, Amy Seimetz, Elias Koteas e il piccolo Charlie Shotwell.
Il contributo del cast è, dunque, il vero valore aggiunto di una pellicola che pur sbandando di tanto in tanto lungo il percorso narrativo e drammaturgico, a causa di digressioni e cicliche ripetizioni di situazione fotocopia, riesce comunque a tenere a sé lo spettatore di turno. E parte del merito va riconosciuto anche alla direzione della cineasta israeliana, che consente agli attori coinvolti di tirare fuori il meglio dalla scrittura e dal potenziale ventaglio di emozioni messo a disposizione dalla storia. In tal senso, l’autrice conferma le sua bravura nel dirigere gli attori, indipendentemente dalle esperienze accumulate e dal loro curriculum. La dimostrazione ci viene dai lavori precedenti come Surrogate e Princess, nei quali le interpretazioni di altissimo livello andavano a compensare le mancanze e le fragilità degli script, risollevandone le sorti.
Con My Days Of Mercy, Tali Shalom-Ezer torna su temi a lei cari, come quello dei legami biologici e del confronto generazionale, con un racconto che sembra essere stato cucito addosso a lei e al suo modo di fare e concepire la Settima Arte, dove le emozioni, le catene di causa ed effetto e le dinamiche tra i personaggi rappresentano le colonne portanti. Qui si concentra sulla storia di Lucy e Martha Morrow, due sorelle che partecipano regolarmente alle dimostrazioni per l’abolizione della pena di morte, seguendo le esecuzioni capitali in tutto il Midwest. A uno di questi raduni Lucy incontra Mercy, che è fra i sostenitori dell’esecuzione essendo figlia di un poliziotto il cui collega è stato ucciso dall’uomo che sta per essere giustiziato. Lucy le rivela la ragione per cui è coinvolta nella causa abolizionista: suo padre è stato condannato per omicidio e attende l’esecuzione nel braccio della morte. Le due ragazze dovrebbero essere acerrime nemiche, e invece provano attrazione l’una per l’altra. La loro relazione si trasforma, passando dall’ostilità alla curiosità, fino a diventare un’intensa passione. Lucy e Mercy dovranno superare le differenze che le separano e che rischiano di sgretolare il loro rapporto.
Come avrete avuto modo di leggere dalla sinossi l’orizzonte narrativo e sopratutto tematico della pellicola si allarga ulteriormente, gettando sulla brace tanta altra carne e dal peso specifico non indifferente. Al dramma del singolo si va, infatti, ad aggiungere un argomento scottante e di non facile gestione, con il quale molti registi si sono andati a scontrare. Quello della pena capitale è una questione lunga e complessa da affrontare e la timeline di un’opera cinematografica è risultata in più di un’occasione stretta a causa dei suoi steccati. In tal senso, My Days Of Mercy argomenta solo in parte l’annosa questione, trasformandola nella cornice tematica dove ambientare la vicenda e per intrecciare le one lines dei personaggi. A convincere di maggiormente è di fatto la questione privata più che la causa collettiva, con le emozioni più forti che provengono in gran parte da quel nucleo di scene che riguardano le dinamiche familiari e la complessa relazione nata tra Lucy e Mercy, che trova nello straziante e commovente finale l’efficacissimo punto di intersezione.

Francesco Del Grosso

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