Tanta gamba, poche parole
Fatti, non parole. Ciclisticamente parlando i fatti si fanno macinando km su km, affrontando ogni genere di percorso e condizione climatica. I ciclisti come Francesco Moser alle parole gettate al vento hanno sempre preferito metterci la gamba e con quella hanno scritto interi capitoli della storia di uno sport che hanno contribuito, con le proprie gesta sulle due ruote, a portare ai massimi livelli. Ma il Moser ciclista è stato raccontato innumerevoli volte, con al seguito tutto il carico di imprese, record e indimenticabili vittorie, che hanno caratterizzato la sua carriera. Di conseguenza, il trovarsi al cospetto dell’ennesimo progetto biografico-sportivo a lui dedicato, che racchiudesse in una timeline tutto quanto quello che è riuscito a collezionare negli anni di attività sulla sella, non giocava di certo a favore del prodotto finale. Probabilmente sarebbe stato accolto con il favore degli appassionati, ma non sarebbe andato oltre quella fetta, seppur corposa, di pubblico. Dunque, c’era bisogno di trovare una chiave diversa, un nuovo punto di vista e di osservazione, in grado di restituire sullo schermo qualcosa che potesse in qualche modo attirare l’attenzione e l’interesse di una platea più vasta.
Il merito di Nello Correale e del suo documentario dal titolo Moser, scacco al tempo, indipendentemente dal fatto che possa piacere oppure no, sta proprio nell’aver trovato quel qualcosa capace di diversificare il progetto in questione da quanto realizzato in precedenza sul protagonista del racconto. Ciò che mancava era un ritratto che andasse più in profondità e scoprisse davvero chi fosse Francesco Moser. Insomma, un ritratto utile a mostrare le due facce della stessa medaglia, ossia quella sportiva da una parte e quella intima dall’altra. Ma il racconto dell’uomo prima ancora che del ciclista diventato leggenda, che si nutre narrativamente più della dimensione privata che di quella pubblica, assume nel film di Correale un ruolo predominante. Ciò che fa l’autore non è di certo una strada drammaturgica mai battuta prima in questo genere di opera audiovisiva. Non mancano, infatti, esempi analoghi, seppur diversi per la storia che hanno raccontato (vedi ad esempio Pantani – The Accidental Death of a Cyclist dell’inglese James Erskine), ma è l’approccio alla materia umana che ha finito con il fare la differenza. Proprio questo controcampo esistenziale ha consentito a Moser, scacco al tempo di caricarsi di nuovi e significativi motivi d’interesse che lo hanno messo nelle condizioni di restituire, a un pubblico più eterogeneo, una serie di aspetti inediti. Quindi, la novità rispetto al soggetto inquadrato sta nella scelta di andare a puntare la macchina da presa sulla persona prima ancora che sul campione che è stato.
Ora dopo aver visto Moser, scacco al tempo, presentato in anteprima come evento speciale alla 66° edizione del Trento Film Festival a 24 ore di distanza dal taglio del nastro di partenza dell’edizione numero 101 del Giro d’Italia, possiamo dire di conoscere un po’ di più lo sportivo che ha fatto sognare intere generazioni. Ora conosciamo ancora di più il suo carattere, il suo attaccamento alla terra, il Trentino e a Palù di Giovo, paesino in provincia di Trento, dove è nato e dove è sempre tornato. Correale lascia che sia il protagonista a raccontare e a raccontarsi, in un flusso orale e mnemonico appassionato e sincero al quale fa eco un “coro greco” di una pluralità di voci di familiari, amici, addetti ai lavori, giornalisti e naturalmente degli ex agguerriti rivali dei tempi che furono come Merckx, Saronni e Hinault.
La traiettoria della narrazione e la messa in quadro sono entrambe all’insegna del classicismo e dei modus operandi solitamente utilizzati per dare forma e sostanza a questa tipologia di documentari. Non mancano, infatti, interviste più o meno frontali ai vari testimoni che si alternano davanti la cinepresa, compreso lo stesso Moser, così come non possono mancare una serie di spettacolari riprese aeree come quella dell’incipit e una carrellata di immagini di repertorio (alcune preziose e inedite) che servono a ripercorrere la vita di Francesco Moser dalla nascita della passione ai grandi successi, passando anche per i momenti più difficili, sino ad arrivare ai giorni nostri. Un racconto, questo, che il regista riesce a comporre con la giusta distanza, non troppo vicino e nemmeno troppo lontano. Tanto basta per restituire sullo schermo un ritratto assolutamente contemporaneo, che rivolge lo sguardo al passato rimanendo però sempre attaccato al presente, senza per fortuna ricorrere a quello stucchevole retrogusto di nostalgico e di romanticismo per attirare a sé lo spettatore di turno.
Francesco Del Grosso