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Mon oncle

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VOTO: 9

E la lotta continuerà…

Va bene la sublime grazia che permea ogni sequenza, costruita ad hoc per stimolare il sorriso quando non la risata a scena aperta. Va benissimo la sensazione di assai gradevole straniamento che suscita la leggendaria figura di Monsieur Hulot – interpretata dallo stesso Jacques Tati – alla sua seconda apparizione cinematografica dopo Le vacanze di Monsieur Hulot (1953).  Resta però il fatto che, al pari di tutto il cinema messo in scena da quel genio rispondente al nome di Jacques Tati, anche Mon oncle (1958), cioè Mio zio, resta, grattando sotto la superficie, una gentile satira dai fortissimi contenuti sociali e politici. Un’opera che riesce ad amalgamare con fluidità poetica ad oggi ineguagliata (il riferimento a Chaplin sorge spontaneo, ma si torna indietro nel tempo…) una serie di “corti circuiti” che avrebbero la densità per essere approfonditi ognuno in un film differente. Nel favoloso mondo di Tati – ogni riferimento a quello di Amélie, per restare ad un successo cinematografico più contemporaneo, ovvero quello del film di Jean-Pierre Jeunet, non è affatto casuale, sia pur in termini molto differenti – il contrasto tra modernità avanzante e una realtà che ancora racconta di esseri umani e dei loro bisogni emotivi si fa sempre più evidente. In Mon oncle c’è una ricca famiglia borghese – gli Arpel: padre, madre e un bambino – che vive in una villa di ultima generazione per la fine degli anni cinquanta, protetta e assistita dagli ultimissimi ritrovati tecnologici. Di contro ecco lo zio Hulot, il quale vive in una vecchia e fatiscente palazzina della zona vecchia di un’indefinita ancorché simbolica cittadina francese, fa la spesa al mercato rionale, intrattiene rapporti con i vicini e regala al nipote, il figlio degli Arpel, piccole schegge di fantasia che il ragazzino dimostra di gradire. Il signor Arpel è industriale nel ramo macchinari per la pulizia, mentre Hulot, dipendente della fabbrica, lotta strenuamente contro l’assimilazione ai ritmi ordinari e fagocitanti di un lavoro pronto a divenire ragione di vita.
Mon oncle è dunque un piccolo, ma per questo ancora più efficace, inno alla Resistenza. Non quella squisitamente ideologica, ma quella assai più vasta riguardante il cosiddetto fattore umano. Un invito a non perdere la capacità di saper guardare la bellezza delle piccole cose, a non rinunciare alla quotidianità di sentimenti scaturiti dal contatto con altre persone. La risposta ad una società che già allora tendeva ad alienare l’individuo risiede sempre e solo nella volontà di non adeguarsi al conformismo imperante. Vedere Mon oncle oggi regala brividi (di piacere, ma anche di inquietudine…) che scorrono nemmeno troppo sottopelle. Prigionieri volenti o nolenti di un universo informatizzato dove il rapporto con se stessi e gli altri si è fatto talmente virtuale da essere ridotto ad un clic di personal computer, smartphone, tablet o qualunque altro ammennicolo di ultima generazione tecnologica, il ritorno ad un cinema che propugna una vita a misura d’uomo collocata su un crinale comunque inclinato verso un progresso/regresso incontrollato, rischia di portare lo spettatore attento ad una sorta di shock anafilattico. Forse converrebbe allora guardare a Mon oncle e all’intera filmografia “tatiana” – soli cinque lungometraggi di finzione, tutti oggetti di culto indefesso – come una sorta di fantascienza appartenente ad un tempo indefinito. Un traguardo da inseguire e possibilmente raggiungere sino a quando ci sarà uno spazio utile a riflettere su chi siamo, cosa stiamo diventando e ciò che saremo tra un numero imprecisato di anni. Ancora vitali nel senso letterale del termine? Probabilmente sì, se il messaggio di semplicità di Hulot – come testimonia il bellissimo epilogo del film – verrà infine raccolto da qualcun altro. Nonché tramandato di generazione in generazione in modo tale che la “buona novella” laica divulgata da Tati e pochissimi altri non possa più correre il rischio di estinguersi.

Daniele De Angelis

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