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In nome di mia figlia

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VOTO: 7

In nome della giustizia   

Una terribile tragedia. Lunghe ed interminabili indagini. La certezza che elementi fondanti siano stati meschinamente insabbiati. Una lotta ostinata e giusta che viene portata avanti per molti anni. Questa formula, già più volte adoperata in numerosi film di genere, se ben messa in scena può ancora oggi dar vita ad un prodotto interessante e ben strutturato. E questo è anche il caso di In nome di mia figlia, diretto dal giovane regista francese Vincent Garenq, che, per questo suo ultimo lavoro, si è ispirato a fatti realmente accaduti.
Siamo nel 1982. La giovane Kalinka, figlia quattordicenne di André Bamberski va a trascorrere le vacanze estive in Germania, a casa di sua madre e del nuovo compagno di lei. Improvvisamente, però, la ragazza muore in circostanze misteriose e, dopo una sommaria autopsia, le cause stesse della morte vengono attribuite ad un vecchio trauma cranico che aveva subito da bambina. Suo padre, tuttavia, da subito comprende che sotto c’è dell’altro e si batterà per molti anni al fine di riportare a galla la verità e di ottenere finalmente giustizia.
Al di là dei fatti narrati, al di là dell’interesse che la storia in sé possa suscitare sullo spettatore, il lungometraggio di Garenq si distingue fin da subito per la particolare struttura narrativa adottata: lenta, ripetitiva, quasi meccanica. Ed il tutto si sposa perfettamente con l’attitudine del protagonista (magistralmente interpretato da Daniel Auteuil), nella sua lunga battaglia al fine di poter fare giustizia per sua figlia. Gli anni passano – a dispetto del ritmo narrativo adottato – piuttosto velocemente. La situazione sembra rimanere sempre uguale a sé stessa. André, nonostante tutto, sembra sempre ancorato sulle sue posizioni. Ed il suo stato d’animo viene sottolineato da una fotografia decisamente cupa – sia per quanto riguarda gli esterni che gli interni – e da una regia che, nelle scene in esterno, sembra prediligere i campi lunghi, al fine di sottolineare l’isolamento in cui l’uomo è avvolto. Operazione piuttosto riuscita, questa, al punto da rendere il tutto un film ben amalgamato, in cui tutte le componenti del linguaggio cinematografico vanno sapientemente nella stessa direzione, senza inutili e rischiose sfilacciature.
Un’unica pecca di In nome di mia figlia sta proprio nella caratterizzazione del personaggio della madre di Kalinka: eccessivamente fredda per quanto riguarda la morte di sua figlia, saldamente ancorata alle sue vacillanti convinzioni al punto da risultare poco credibile, dà tutta l’idea di essere una figura inserita in sceneggiatura con l’unico scopo di enfatizzare ulteriormente la solitudine del protagonista, come se si fosse fin troppo pesantemente calcata la mano in merito.
Ma, alla fin fine, quanto potrà mai influire un simile dettaglio, nella riuscita finale del prodotto? Il lungometraggio di Garenq, infatti, può tranquillamente classificarsi come un film accuratamente realizzato, con una sceneggiatura di ferro ed un ottimo cast, coinvolgente ed appassionante, il quale, pur ricalcando le orme di numerosi film di genere, evita il pericoloso effetto di déjà vu che capita fin troppo spesso di avere durante numerose altre visioni. Interessante sorpresa appena prima della conclusione di una stagione cinematografica che, tutto sommato, si è rivelata particolarmente interessante e variegata.

Marina Pavido

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