Tic tac, agente Hunt
Che la saga cinematografica di Mission: Impossible avesse abbandonato una via autoriale, quantomeno dal punto di vista formale, già dopo il secondo capitolo per incanalarsi su binari più dichiaratamente commerciali, nonché anonimi, era cosa abbastanza evidente. Con tutta probabilità è stato il tocco esageratamente personale – almeno agli occhi dei produttori, che infatti interferirono non poco sull’esito finale del prodotto – di John Woo in Mission: Impossible II (2000) a far decidere per la drastica inversione di rotta; da lì in poi discreti prodotti, magari a corrente alternata, senza però nessuna pretesa di originalità stilistica. Come uno spettacolo da strada dei tempi antichi, la serie tratta dall’omonimo telefilm anni sessanta-settanta si è adagiata su un canovaccio sempre uguale a se stesso, che vede la brigata di agenti supersegreti capitanata da Ethan Hunt (Tom Cruise, il quale merita un discorso a parte…) impegnata a sventare un qualche complotto ordito su scala internazionale a detrimento della sicurezza americana e mondiale. La musica ovviamente non cambia nell’ultimo Mission: Impossible – Rogue Nation, che vede uno dei “beneficiati” de I soliti sospetti, lo sceneggiatore Christopher McQuarrie, salire sul metaforico ponte di comando della regia, mai come in questa occasione sotto il totale controllo di Tom Cruise, che già aveva avuto occasione di testare la fedeltà di McQuarrie dopo averci lavorato nel poco esaltante Jack Reacher – La prova decisiva (2012).
Risulta abbastanza chiaro, dopo questo necessario preambolo, come Mission: Impossible – Rogue Nation sia, al tirar delle somme, il film più anonimo e scontato della cinquina sinora realizzata. Certamente la computer graphic assolve in pieno il proprio compito e i numerosi stuntmen compiono egregiamente il loro dovere a furia di inseguimenti con annesse auto/moto destinate a spettacolare disintegrazione; tuttavia quando una saga che nasce sotto l’egida dell’azione pura trova i suoi momenti più riusciti in un’ironia parente strettissima dell’auto-parodia (con Simon Pegg a recitare un ruolo ancor più determinante, in questa chiave, rispetto al capitolo precedente), allora è chiaro il segnale che qualcosa da rivedere c’è, eccome. E tra questi fattori da riconsiderare con attenzione ci sarebbe anche il deus ex machina Tom Cruise. Probabilmente l’aspetto maggiormente degno di approfondimento dell’intero film risiede proprio nella discendente, da un punto di vista fisico, parabola dell’attore e, conseguentemente, del personaggio. Superata di slancio la boa della mezza età, Cruise/Hunt mai come in Mission: Impossible – Rogue Nation appare vulnerabile, spesso salvato da una sorta di angelo custode al femminile interpretato dall’aitante Rebecca Ferguson nei panni di un’agente del servizio segreto britannico. Nessun flirt tra i due; piuttosto una sorta di affetto filiale, a legare l’unico personaggio appartenente al cosiddetto sesso debole – mai definizione fu più errata, in questo caso – al mattatore maschile. Il quale volto comincia, ahilui, a manifestare i segni del tempo che scorre, rendendo ulteriormente inverosimili tutte le acrobazie da autentico funambolo che lo vedono coinvolto nel corso delle lunghe (molto lunghe…) due ore e un quarto di proiezione.
Se si eccettua dunque una molto probabilmente involontaria lettura femminista del film di McQuarrie e la riflessione, anch’essa decisamente indotta, sul corpo di Cruise, non resta che segnalare qualche situazione narrativamente riuscita, tipo il tranello a fin di bene in cui cade il Primo Ministro britannico e una paio di sequenze – tra cui quella di apertura – decisamente ben girate nella loro manifesta, spettacolare, assurdità. Mentre tendono ad appesantire il piatto negativo della bilancia la mancanza di un vilain carismatico – sebbene l’attore inglese Sean Harris ce la metta tutta, a far apparire freddo e calcolatore il suo personaggio – e soprattutto l’alone di intangibilità assoluta che avvolge ogni personaggio positivo, fattore che toglie ogni residua possibilità di suspense e conseguente pathos all’intera pellicola. Se comunque ci si accontenta, oltre alla scontata simpatia dell’insieme, della solita lotta senza quartiere che coinvolge buoni versus cattivi, del mitico motivetto di Lalo Schifrin a fare da imperituro leitmotiv e dell’aria condizionata (si spera) presente nei cinema, ecco che l’uscita agostana di Mission: Impossible – Rogue Nation potrebbe alla fine trovare un suo significato.
Daniele De Angelis