Madre a mano armata
Si parla di storie e di film personali quando nel DNA vi sono elementi che legano a doppia mandata e in maniera profonda il racconto e l’opera in questione al suo autore. Questo è esattamente il caso di Mexico 86, la pellicola scritta e diretta da César Diaz che il pubblico, noi compresi, ha potuto vedere e apprezzare in occasione della proiezione in concorso al 34° Noir in Festival, laddove la palpitante e tesa opera seconda del regista guatemalteco è stata presentata in anteprima italiana dopo la première alla 77esima edizione del Locarno Film Festival.
La storia ha inizia quando, nel 1976, Maria, un’attivista ribelle guatemalteca impegnata nella lotta contro la dittatura militare corrotta, è costretta a fuggire in Messico a causa di minacce di morte, lasciando suo figlio Marco con la nonna in Guatemala. Dieci anni dopo, quando il bambino si ricongiunge con lei, la donna si trova di fronte a un doloroso bivio: scegliere tra i doveri di madre e l’impegno nel movimento rivoluzionario. Il più delle volte gli attivisti – e non solo loro – si dedicano anima e corpo alle trasformazioni sociali, ma non hanno spazio per svolgere il ruolo di genitori. Il film indaga il terribile dilemma di Maria, che cerca di essere onesta e coerente con se stessa e i suoi ideali senza rinunciare all’amore per suo figlio. La medesima condizione, questa, in cui si è ritrovata a suo tempo anche la madre del regista come lui stesso ha dichiarato: «sono nato nel 1978, durante la guerra civile in Guatemala. Mia madre era coinvolta nella lotta contro la dittatura e dovette andare in esilio in Messico quando avevo 3 anni. Lo fece per la propria sicurezza, ma anche per continuare la lotta. Io rimasi in Guatemala con mia nonna». C’è dunque un cordone ombelicale che unisce personaggi, storie, intenzioni, ricordi ed eventi del filmico alla sua matrice, in cui chi sta dietro la macchina da presa si è interrogato sul costo delle scelte fatte da sua madre e dai suoi compagni di lotta. Ecco allora che a porre le basi narrative e drammaturgiche di Mexico 86 c’è la vera storia di Diaz, con quelle note autobiografiche che, seppur romanzate per esigenze cinematografiche, hanno reso l’opera un racconto personale nel senso letterale del termine, in cui la parte più intima e privata di esso ha attinto da esperienze di vite vissute che lo hanno reso più reale e trasudante emozioni che mai.
Risiede nel magma emozionale cangiante sprigionato dal racconto che va riversandosi sullo schermo a getto continuo il motore portante del film. Questo alimenta dal primo all’ultimo fotogramma utile la timeline, con la fruizione che alterna momenti di grande tensione (vedi il prologo e le scene ambientate nella metropolitana, sull’autobus, ma soprattutto la fuga dall’appartamento in macchina con tanto di conflitto a fuoco nel mezzo di un carosello di tifosi durante una partita del mondiale in quel di Città del Messico) ad altrettanti di commozione che riguardano il rapporto madre-figlio. Trait d’union, oltre alla scrittura e alla sua messa in quadro (degna di nota la fotografia di Virginie Surdej e la cura nella ricostruzione storica), la solita straordinaria e intensa Bérénice Béjo che per la sua interpretazione ha attinto anch’essa al proprio passato e alle sue origini sudamericane. L’attrice francese regala l’ennesima performance di altissimo livello nel ruolo complesso di una donna testarda che si ritrova, suo malgrado, in una duplice battaglia, contro i suoi nemici e contro i suoi stessi alleati, ma anche con i suoi doveri di madre.
Francesco Del Grosso