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Maps to the Stars

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VOTO: 8.5

Natura morta

Quante volte, a proposito della filmografia di David Cronenberg, si è usato il termine “definitivo” per contrassegnare l’importanza di uno dei suoi lavori? Spesso. E non casualmente. Se, per fare qualche esempio, La mosca (1986) chiudeva idealmente l’epopea cronenberghiana della trasformazione fisica per lasciare il posto a più sottili – e persino più inquietanti – metamorfosi interiori; se il penultimo Cosmopolis (2012) suggellava la totale (con)fusione tra ciò che rimaneva dell’essere umano, sperduto in un modo di aridi numeri dove a comandare era un’economia globalizzata ormai dotata di vita autonoma, non restava altro da fare che attendere il passo successivo. Puntualmente arrivato con Maps to the Stars (2014). Un’opera ambientata nel vacuo e disperato mondo di Hollywood, paradigma simbolico di un qualcosa di ben più grande, in cui ogni singolo comportamento è imitazione d’altro e di conseguenza i vari individui non possono fare altro che vagare disperati nella ricerca impossibile di una propria identità. Esattamente come fantasmi. I quali compaiono a più riprese in Maps to the Stars, mimetizzandosi però in maniera straordinaria con quella che dovrebbe essere in teoria la realtà dei viventi, ectoplasmatici quanto e più di loro. E infatti le mappe per le stelle del titolo sono solo pretestuosamente quelle che portano all’effimera celebrità, mentre in effetti esse conducono all’unica possibile soluzione in grado di porre fine ad un percorso pseudo-esistenziale costellato da inimmaginabili sofferenze fisiche e mentali.
Maps to the Stars risulta quindi essere il primo film di Cronenberg esplicitamente necrofilo. Non solo nel senso letterale del termine, ma in quello di assoluta prossimità nei confronti di un discorso quanto mai generalizzato sulla conclusione di un’esistenza che viene assai difficile considerare tale, in perfetto ossequio all’ineguagliato pessimismo dell’autore. Capace, nella sua ultima fatica, di toccare vette di autentica sublimazione filosofica sul tema. Se infatti la stragrande maggioranza dei personaggi del cinema del regista di Toronto si ribellavano – qualcuno anzi addirittura sfidandolo, vedi il Seth Brundle del già citato La mosca – inutilmente ad un annunciato destino di morte, in Maps to the Stars il definitivo viaggio li accompagna sin dalla prima inquadratura. La méta è Hollywood, ma non il regno dorato di celluloide, dove i sogni possono divenire realtà; bensì la famosa scritta sulla collina, ripresa dalla regia di Cronenberg da un’angolazione desertica di totale squallore. In questa finzione surreale di lacerante verismo si affannano, al pari di burattini senza fili, i membri una famiglia pesantemente disfunzionale dove i ruoli non si rispettano, finendo inevitabilmente per confondersi; un’attrice sull’orlo di una crisi di nervi che ormai dispera di eguagliare il successo della madre (memorabile interpretazione di Julianne Moore, premiata come miglior attrice per il ruolo al Festival di Cannes 2014); un autista di limousine – interpretato, con tocco di cupa ironia nella scelta, dal Robert Pattinson auto-confinatosi nella sua vettura in Cosmopolis – con sogni di attore ma invischiato in pellicole di serie C e, a livello personale, storie di sesso a buon mercato scevre di sentimento. Una esemplare retrocessione di gruppo ad uno stato di purezza semi-animale, dove persino il tabù estremo dell’incesto viene preso in seria considerazione da alcuni personaggi. E non sempre rifiutato.
Coadiuvato da una sceneggiatura di Bruce Wagner – nel suo passato anche lo script del terzo capitolo della saga di Nightmare, I guerrieri del sogno (1987): e se ci si riflette qualche istante un fil rouge esiste eccome, soprattutto nel pauroso, inesistente, scarto adolescenziale tra aspettativa di realtà e la sua effettiva percezione… – ovviamente adattata all’uopo, Cronenberg osserva la sua fauna con sguardo neutro, ora sottilmente sarcastico ma mai privo di un velo di compassione. Perché consapevole che il percorso “verso le stelle” alla fine riguarda anche lui, tutti noi. Può cambiare solo la modalità del viaggio. In Maps to the Stars, programmaticamente lontano – e non poteva essere altrimenti – da qualsiasi ipotesi fideistica, è “solo” un enorme salto nel vuoto, verso il nulla che ci circonda nell’universo. Oppure, a ben guardare, un vano tentativo di fuga da quel male ben più vicino ed assai meno suggestivo che affligge “democraticamente” morti e vivi, nello sgradevole ma proprio per questo affascinante film di un David Cronenberg che ancora una volta scava, con studiata e metodica lentezza, nel nostro ancestrale rimosso di spettatori: portando alla luce quel cancro invisibile che si chiama solitudine.

Daniele De Angelis

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