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Mani in alto!

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VOTO: 8.5

Stalin quattrocchi

Cangiante nelle tracce narrative e nelle scelte stilistiche, ma refrattario ai compromessi, il cinema di Jerzy Skolimowski sia durante la breve e tormentata convivenza coi dettami della Polonia comunista che nelle peregrinazioni successive ha mantenuto alto il livello di iconoclastia, irriverenza, eccentricità ed intima ribellione. Un’indole profondamente ribelle, quella del grande cineasta polacco, che ha spesso preso di mira le istituzioni, il potere; nelle diverse forme e concretizzazioni, che ad esso è possibile attribuire.
C’è pertanto da essere grati a CiakPolska 2019 per aver mostrato nuovamente sul grande schermo, per giunta in pellicola 35mm, il film che rappresentò la rottura con il blocco socialista: Mani in alto! (Ręce do gory), girato nel 1967 ma fatto circolare per motivi di censura solamente nel 1981, con l’aggiunta da parte dell’autore di un prologo acuminato come una freccia, nell’alludere tanto alle traversie cui era andata incontro la produzione dell’opera che alla successiva “attualizzazione” di un girato rimasto fermo, come si usava dire all’epoca, “su uno scaffale”. Proprio in tema di censura, illuminante si è rivelato al Palazzo delle Esposizioni (dove tale proiezione ha aperto l’attesissima sezione di “classici” del festival organizzato dall’Istituto Polacco di Roma: non a caso è Lo sguardo proibito. Cinema e censura nella Polonia del periodo comunista il tema scelto per questa edizione) il discorso introduttivo di Agniezka Morstin, studiosa di cinema proveniente dall’Università di Cracovia, che con un’ampia aneddotica e alcuni contributi audiovisivi ha saputo brillantemente contestualizzare le differenti strategie attuate da autori come Wajda e, per l’appunto, Skolimowski, nel rapportarsi al castrante sistema censorio allora in vigore.

Tornando a Mani in alto!, pare che gli strali dei censori si fossero abbattuti sulla pellicola per via della dissacrante immagine, divenuta poi fortemente iconica, di uno Stalin dotato non di due ma addirittura di quattro occhi, appiccicati tra loro. Quasi il ritratto di un Leviatano. Ciò che lui, in fondo, era stato davvero. Ed anche se si era già lontani dal periodo staliniano e dai feroci anni della trasformazione forzata della Polonia in paese socialista, che Wajda ha saputo esprimere così bene nel suo ultimo film, Powidoki – Il ritratto negato, una simile apparizione doveva apparire ancora sacrilega.
Tuttavia, rivedendo il film oggi e immaginandone l’impatto avuto all’epoca, presso una casta di rigidi burocrati, c’è veramente poco in Mani in alto! che i funzionari comunisti di allora potevano aver gradito. Girato in un terrigno bianco e nero tendente all’ocra, straniante e claustrofobico nel rapportarsi agli spazi attraversati da un ristretto gruppo di personaggi (uno dei quali interpretato dal regista stesso), debitore forse delle contemporanee ricerche teatrali, visionario in più di un momento, il lungometraggio di Skolimowski non si faceva certo scrupolo di raccontare l’immaginifico viaggio in treno dei protagonisti, creando un sottile parallelo tra la cappa opprimente che si avvertiva nella Polonia degli anni ‘60 e la memoria ancora viva dell’occupazione nazista e di quei treni blindati, che un tempo conducevano ai campi di concentramento.
Rivisto oggi, Mani in alto! continua ad apparire sinistro, destabilizzante, angosciante, forse un po’ ermetico, ma di sicuro potente a livello di immagini ed ulteriormente complesso, per via di quel prologo aggiunto nei primi anni ’80; significativa la giustapposizione delle scene di un Libano devastato dalla guerra civile e delle manifestazioni londinesi a favore degli scioperanti polacchi, già organizzatisi attorno a Solidarność, quale conferma di uno sguardo distopico sulla Storia umana e di un costante sostegno a chiunque cerchi di sovvertirne gli schemi.

Stefano Coccia

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